REGINA JOSE’ GALINDO: CORPORA VIOLATA

Regina José Galindo, Perra, azione, 2005

Quella del Guatemala è una storia complessa, non dissimile da quella degli altri Paese dell’America centro-meridionale; durante il Secondo Novecento, in particolar modo, il Paese ha visto il susseguirsi di una serie di dittature militari che, tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’90, lo hanno gettato in un bagno di sangue e corruzione, sostenute anche dagli stessi Stati Uniti che appoggiarono l’elezione di Carlos Castillo Armas, un condannato a morte riuscito a fuggire alcuni anni prima di prendere il potere, sotto il quale venne compiuto quello che, anni dopo, verrà riconosciuto come genocidio perpetrato a danno di alcune minoranze etniche (indios e maya in particolare), ma che non risparmiò neppure lavoratori, studenti, oppositori. Gli indios, d’altronde, opposero dall’inizio una dura resistenza, alla quale, nel 1982, si unì la coalizione di quattro gruppi marxisti costituenti la Unidad Revolucionaria Nacional Guatemalteca, che portò il governo, nel 1984, ad aprire ai civili, avviando così un processo di democratizzazione, con la stesura di una Costituzione, e con l’indizione delle prime elezioni, nel 1986, dalle quali uscì vincitore il democristiano Vinicio Cerezo, il quale trionfò grazie ad un programma valido (almeno sulla carta) che fruttò il cospicuo aiuto economico da parte di altri Paesi. Il governo di Cerezo, tuttavia, non risolse i numerosi problemi del Paese, anzi, al contrario, li aggravò: continuarono le lotte tra i militari e la guerriglia rivoluzionaria; gli squadroni della morte ripresero i loro assalti contro la popolazione, culminati in vere e proprie stragi, mentre la corruzione si diffuse ampiamente a tutti i livelli.

Nel 1992, l’attivista indigena per i diritti umani, Rigoberta Menchù, fu insignita del Nobel della Pace per il suo operato volto a portare all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale i crimini commessi contro la popolazione guatemalteca, mentre solamente nel 1996, arrivò la condanna, da parte dell’allora presidente Bill Clinton, dell’appoggio statunitense alla dittatura militare. Il 1996 fu l’anno, anche, in cui finalmente si chiuse la trentennale guerra civile, grazie ai compromessi negoziati tra le parti in conflitto, guidati dalle Nazioni Unite.

Questo breve excursus si è reso necessario per delineare e comprendere il lavoro Regina José Galindo, performer guatemalteca, che focalizza l’attenzione sui fatti storici che colpirono duramente il suo Paese. La Galindo, infatti, sfrutta il suo corpo come veicolo di una protesta politica e sociale che, contornandosi di un carattere rituale, accompagna al ricordo delle stragi un atto di espiazione, una rievocazione della colpa che ha la necessità di tramutarsi in atto di perdono. La collettività viene in tal modo richiamata non solamente a perpetrare la memoria, ma ad un’azione partecipativa che possa fungere da strumento di liberazione e presa di coscienza della pericolosità che il susseguirsi degli eventi possa, nei loro corsi e ricorsi, riproporre episodi criminali trascorsi e dunque della necessità di salvaguardarsi per se stessi e per gli altri.

Da tali presupposti deriva il carattere violento, spesso spinto sino al limite della sopportazione fisica e visiva, dei lavori dell’artista, attraversati sempre due costanti di riferimento: quella politica e quella sociale.

R.J.Galindo, Quién puede borrar las huellas?, performance, 2003, immagine da web

Il sangue impregna, sotto forma di impronte, l’asfalto: in Quién puede borrar las huellas, del 2003, la Galindo intinge i piedi in un catino pieno di sangue e attraversa il tratto di strada che collega le due sedi del potere, quella del governo e del Palazzo di Giustizia, emblemi della democrazia rinnegata, di quel sangue versato per il riconoscimento di quegli ideali supremi che garantiscono il diritto maggiore della dignità umana. Il gesto del marcare il territorio ha sempre avuto una forte valenza simbolica nell’arte sudamericana: esso segna il passaggio, la presenza impressa e duratura, e, nell’opera in questione, simboleggia un ponte tra il passato e il futuro che hanno nel presente il punto d’incontro rituale tra il monito e la commemorazione delle vittime.

R.J.Galindo, Waterboarding, performance, 2007, immagine web

La brutalità delle azioni punitive del regime trovano riscontro in opere dal forte impatto, come in Waterboarding (2007), in cui l’artista viene violentemente afferrata per i capelli e immersa nell’acqua, a ricordo e condanna di uno dei metodi usati dai militari (la performance fu realizzata appena due anni dopo che emersero gli atti della Polizia Nazionale, che rivelarono i metodi usati dai militari durante la guerra); in altri lavori, la Galindo si fa chiudere in celle frigorifere ( Piel de gallina, 2012), in sacchi di plastica (Reconocimiento de cuerpo, 2008), in bare di legno (Movil, 2010), come azione di condanna e compianto per quelle vittime anonime la cui dignità non ha trovato rispetto neanche dopo la morte. Essi trovano riconoscimento attraverso il corpo esposto dell’artista e dunque riacquistano un’identità.

R.J. Galindo, Limpieza social, performance, 2006, immagine web

A cavallo tra la condanna politica e quella sociale vi sono quei lavori di denuncia dei trattamenti e delle violazioni subiti dalle donne guatemalteche, indigene soprattutto. Significativa è l’azione Limpieza social (2006): in essa dei violenti getti d’acqua gelati, lanciati da idranti anti-sommossa, investono il corpo nudo dell’artista, a ricordo di uno dei metodi di tortura usati contro le donne. In Perra (2005) l’artista incide sulla sua pelle la parola ”perra” (cagna) a simboleggiare l’idea del corpo femminile come un corpo animale e dunque marcando il degrado ad essere sottomesso, bestiale, inferiore; un marchio d’infamia inciso nella carne, visibile a tutti, una lettera scarlatta che emargina, denigra.

R.J. Galindo, Limpieza social, performance, 2006, particolare, immagine web

Il perdono invocato contro il massacro degli indios passa attraverso un’inversione dei ruoli in Hermana, del 2010, performance durante la quale la Galindo lascia che un’indios la schiaffeggi ripetutamente.

Negli ultimi anni, l’interesse dell’artista sembra essersi spostato verso tematiche relative allo sfruttamento e distruzione ambientali: in Tierra, del 2013, una ruspa scava un fossato circolare, al cui centro, sull’isolotto di terra rimasto, s’erge il corpo nudo della Galindo che pare voglia incarnare la madre terra violata; così in Piedra, dello stesso anno, dove il suo corpo, chinato e cosparso di materia grigia (come un masso roccioso) viene umiliato, lasciandosi urinare sopra.

R.J.Galindo, Piedra, 2013, immagine web
R.J.Galindo, Tierra, 2013, immagine web

Un lavoro lungo e complesso che simboleggia un uso non esibizionistico, ma consapevole del corpo, riconoscendone il forte valore nella presenza pubblica, espositiva e vivibile, nell’azione atta a ricevere il dolore e a trasferirlo allo spettatore che lo assorbe e lo elabora come esperienza reale, personale e collettiva.

Il messaggio che la Galindo vuole trasmettere sembra riflettere il lamento dell’ombra di Dario nella tragedia eschilea I Persiani, laddove dice: << Cumuli di cadaveri che fino alla terza generazione, muti testimoni davanti agli occhi di tutti, insegneranno che non deve chi è mortale esser troppo superbo, perché la superbia dopo il fiore dà il frutto: ed è spiga di rovina da cui si miete messe di pianto>>.

– A. Celletti

Sitografia storia:

-Wikipedia

-www.guide.sipereva.it