NEW YORK, NEW YORK! ANNI ’80 E GRAFFITI ART

Unknow, NY Street, pittura su muro, New York, Fine Arts Academy

Siamo generalmente portati a considerare l’arte americana come una fucina costante di idee e innovazioni e ad attribuirle, di conseguenza, il ruolo di capofila nel porre le linee-guida dei corsi artistici; ciò deriva dal carattere rivoluzionario di alcune correnti o manifestazioni individuali e collettive che, in particolari periodi storici e culturali, hanno di fatto portato in primo piano alcune ricerche per lo più legate a pensieri di controcultura o ad originali rielaborazioni di tendenze diffuse in Europa: dall’Action Painting alla Body Art, dalla Pop Art al Minimalismo, sino al Concettuale, ci troviamo dinanzi ad espressioni di un tentativo di svincolarsi dal rigore di una purità , di un ordine di classicità, nel senso americano del termine, che aveva già avuto in Hopper e nei suoi seguaci dei modelli di riferimento, i quali, pur discostandosi dal classicismo puro impartito dalle accademie, restavano nel solco della tradizione figurativa. Ciò può trovare spiegazione nel forte peso esercitato dalla tradizione e dall’ossequio ad essa riservata da un’incidente propaganda politica, sicché potremmo trarne l’impressione che, seppur il notevole impatto esercitato a livello internazionale, le correnti sopraelencate siano, nel complesso, fenomeni a sé stanti, manifestazioni ”stravaganti” e provocatorie all’interno del quadro complessivo. Riteniamo, pertanto, corretto l’utilizzo del termine ”implosione” da parte di Renato Barilli ad indicare lo status quo dell’arte americana dopo gli anni ’60, se lo rapportiamo al periodo storico di riferimento, ossia se lo poniamo in relazione alla politica conservatrice che dominò a cavallo tra gli anni ’70 e i primi anni ’90. Da Nixon a Bush senior, la propaganda americana fu basata sull’idea di ”rifare grande l’America” (secondo la visione del Presidente Donald Reagan) e ciò a discapito di quanti potessero rappresentare una minaccia o un intoppo al grande ideale capitalista che a questa propaganda sottendeva. Dopo lo scandalo Watergate del ’72 e la crisi petrolifera del ’73, fu sotto la presidenza di Reagan che i maggiori effetti di questa politica conservatrice si manifestarono: dalla lotta allo storico nemico, il Comunismo russo, cubano e del Nicaragua (le ”incarnazioni dell’Anticristo”), alle manifestazioni operaie e alle politiche sindacali, che vennero fortemente condannate e duramente punite, sino alla decisione di continuare i tagli alla spesa pubblica e assistenziale (nel 1981 furono operati tagli per 40 milioni di dollari, colpendo maggiormente le fasce deboli della popolazione1); di fatto la reaganomics si poneva in continuità con le politiche dei suoi predecessori, ma fu più decisa e incisiva, accentuando il divario tra poveri e ricchi: se quest’ultimi preferirono spostarsi a sud o all’estero, nelle grandi città si assistette alla nascita di veri e propri ghetti, ossia zone dominate da diverse etnie che vivevano per lo più in forte stato di degrado e abbandono, ”capi senza Dio e spina dorsale…residui del Welfare State”, come tuonava nelle sue prediche Falwell, a capo di quella Moral Majority avversa a immigrati, persone di colore e omosessuali. Gli effetti di tale politica furono evidenti a livello sociale e culturale e possono aiutarci a spiegare le cause di quella ”esplosione” dell’arte americana nel corso degli anni ’80 che ebbe in New York il motore propulsivo e ruggente, la sede di quei Capi senza tribù, che rivoluzionarono il concetto di arte e di artista e alimentarono un nuovo American Dream fatto di eccessi e trasgressioni.

-New York, New York

In un programma trasmesso su Rai5, ”Tre città, un secolo (1908, 1928, 1951)”, James Fox, aprendo il discorso su New York, illustra una pianta della città: essa appare come un reticolato, con strade che si intersecano secondo uno schema geometrico che richiama quello degli antichi castra romani o il rigore funzionale dello schema elaborato da Hausmann nella Parigi ottocentesca. Ai margini di queste strade si ergono edifici monolitici, grattacieli in vetro e ferro: strutture anonime, grigie, quadrate, formali. Strutture pragmatiche che sembrano rispondere all’estetica modernizzante di Loos avversa a qualsivoglia ornamento. Spostandosi a nord-ovest, nel distretto di Manhattan, questo schema fortemente geometrico si rompe entrando nel quartiere del Greenwich Village. È curioso notare come alla ”ribelle” planimetria del quartiere corrisponda una cultura altra, estrosa, vivace, ribelle per l’appunto, sotto molti aspetti. Il Village ha rappresentato, infatti, soprattutto tra gli anni ’60 e ’70, il cuore nevralgico di un intenso sviluppo culturale e da qui hanno mosso i primi passi molti artisti tra i quali lo scrittore Jack Kerouac, il duo Simon&Gurfunkel, Joni Mitchell, Lou Reed, Andy Wharol, Joan Baez, Bob Dylan e altri ancora. Nel locale Stonewall Inn ebbe simbolicamente inizio il movimento di liberazione omosessuale. Una vera giungla creativa e innovativa, distante dal grigiore della metropoli al cui interno, tuttavia, era in continuo movimento la macchina politica, economica e culturale americana. Locali, palazzi di potere, banche e gallerie, come quella di Holly Solomon, attorno alla quale si riunì una ”pattuglia vorace, chiassosa, aggressiva, di chi procurava di assicurarsi un valido repertorio di vivaci elementi policromi da sciorinare sui muri” [Barilli], ossia la cerchia di artisti (Bob Kushner, Kim McConnel, Ned Smyth) del Pattern Paintings, una pittura che voleva recuperare, attraverso forme aniconiche, anche il carattere decorativo e ornamentale dell’arte, aderendo alla linea del postmoderno Bob Venturi, avverso al pensiero di Loos. Strade e locali divengono un punto di ritrovo, un luogo di ricerca d’identità. La ghettizzazione della città e il divario socio-economico e culturale passa attraverso questi luoghi: il Queens, Chinatown, Little Italy, Brooklyn, il Bronx sono le roccaforti degli immagrati, dei ladinos, degli afro-americani. Ogni gruppo ritaglia dei propri spazi all’interno della grande città, così il Palladium Ballroom, le strade, divengono territori da frequentare e ghettizzare; i ricchi prediligono il centro, quella Grande Mela che offre loro gli svaghi e le libertà più sfrenate, come nelle folli notti allo Studio 54, frequentato da personaggi del calibro di Liza Minnelli, lo stesso Wharol, Grace Jones e persino i coniugi Trump, Donald e l’allora moglie Ivana. Quelle serate trascorse nei vizi (alcool, droga, sesso e violenza), divenute vere e proprie leggende metropolitane, alimenteranno l’immaginario underground e trasgressivo di quegli anni e di quella generazione per la quale ”sembrava che non ci fosse alcuna memoria collettiva, che non ci fosse passato. Si era rinunciato a qualunque forma di storia, a qualunque tipo di coinvolgimento, a qualunque tipo di giudizio” [Gonzalez Torres].

La ricerca di libertà non si urla più nelle strade e negli slogan, ma la protesta si tramuta in atti di ribellione individuali, racchiudendosi in una sfera intima e autodistruttiva: l’arrivismo, il degrado, la cocaina, la promiscuità sessuale distruggono una generazione che raccoglie le ceneri del anticonformismo di quella passata e lo traduce in edonismo, nella necessità di una libertà senza condizionamenti e restrizioni. Le mille luci di New York di Jay McInerney diviene il romanzo emblema del delirio newyorkese di questi anni, affascinando, come scrive Pier Vittorio Tondelli, la giovane fauna milanese che vede in New York un miraggio, il paradiso dei perduti. Una Sodoma e Gomorra oltreoceano tra lusso e violenza, droga, musica e libertà sessuale.

Artisticamente questi anni vedono il contrapporsi di tendenze varie, preesistenti e nuove: accanto ai ”classici”, alcuni nomi di alcune delle tendenze dei due decenni precedenti continuano ad offrire nuovi spunti, tra i quali Robert Morris, Sol Lewitt, David Salle, mentre la Pop Art sembra declinare nel suo opposto, infarcendosi di quel consumismo dal quale aveva mantenuto un freddo distacco. La sua migliore espressione è quella musicale, che ne incarna la disinvoltura e il colorismo: Madonna e Michael Jackson definiscono i canoni di questo genere, con testi semplici, facili da memorizzare e dalle sonorità ballabili, non troppo spesso slegati da riferimenti a questioni sociali e politiche2. Ancora Madonna e Boy George sono portatori di una nuova mentalità, divenendo icone di una promiscuità non solo sessualmente fisica, ma anche di genere: se la prima rompe i tabù legati al sesso e porta sulla scena una donna nuova, disinibita e trasgressivamente femme fatale, autonoma e lontana dallo stereotipo della donna americana, moglie e casalinga, Girls just want to have fun di Cindy Lauper diventa il manifesto di una ragazza ribelle, girovaga e libera. Boy George, invece, si cuce addosso un personaggio promiscuo, una figura androgina, sulla scia di David Bowie, e portatore della tendenza al trasformismo e travestitismo che nasce da una mentalità di fondo: quella che con il proprio corpo fosse possibile fare tutto, annientarsi e reinventarsi in continuazione (non si trascuri il fascino esercitato dalla cultura drag). Una musica che viaggia attraverso emittenti televisive nuove: sono gli anni che vedono la nascita di MTV, la nascita dei primi videoclip strutturati secondo contenuti nuovi, narrativi, fantasiosi. Nel 1987 irrompe sugli schermi la serie animata di The Simpson, un’irriverente famiglia che, con le sue disavventure, rappresenta una critica mordace e poco velata alla cultura americana, riuscendo a raggiungere il pubblico giovanile puntando sul ricorso ai loro gusti, ai loro linguaggi. Un’epoca apparentemente dorata, sfrenata, oscillante tra la prospettiva di poter fare tutto e l’autodistruzione, il consumarsi nel contingente. D’altronde Haven is a place on earth!

La moda asseconda i gusti e le stravaganze della massa, accostandosi sempre maggiormente all’arte e affidando le proprie campagne pubblicitarie ai grandi nomi della fotografia e della grafica pubblicitaria: Andres Serrano, Helmut Newton, David LaChapelle, Annie Liebovitz, sono alcuni esempi di artisti che hanno abilmente saputo mescolare arte e tecnica e a renderli adatti a rispondere alle esigenze del consumo, a renderli, dunque, prodotti di massa. Time Square si illumina di tecnologi billboards virtuali, mentre nelle periferie il degrado avanza: alle mille luci colorate di questo si contrappongono altrettante ombre. Oltre la droga, la delinquenza, un’altra piaga dilaga a partire da questi anni: un male infido, subdolo, una vera peste del XX secolo: l’AIDS.

Sul pittoresco Village s’abbatte un’ombra, rendendolo una zona pericolosa dalla quale tenersi a distanza. Un pregiudizio che trova la sua spiegazione nel fatto che, quando si manifestarono i primi casi, le vittime furono principalmente omosessuali: da allora si ritenne che fosse una malattia di cui fossero portatori i soggetti Lgbt, evitati come fossero untori, poiché si riteneva che si potesse venir contagiati addirittura col semplice contatto3, con la saliva o attraverso l’aria. Reagan, nel 1985, tagliò i fondi alla ricerca col risultato di una rapida diffusione del male. Molti artisti ne furono vittime: Keith Haring, Robert Mapplethorpe, Felix Gonzalez Torres; nel mondo della moda uno dei nomi più celebri uccisi dall’AIDS è quello della modella Gia Carangi, mentre altri sono quelli delle vittime della droga: Basquiat4, ad esempio, fu tra questi. Un clima di paura, quella della malattia, della morte, che sembrava attendere dietro gli angoli delle strade, pervade la città. Per quei reietti, maledetti dall’AIDS, Diamanda Galàs comporrà The Litanies of Satan, un’interpretazione in chiave elettronica e sperimentale dei celebri versi di Charles Baudelaire, accompagnandoli a urla lancinanti e rantoli; un inferno di suoni, il grido disperato dei maledetti. ”Oh Satan, prends pitiè de ma loungue misèrie!”

Nan Goldin, Gotscho e Gilles, Ballad of Sexual Dependency series

Cosa è rimasto di quegli anni ’80? una fotografia, anzi, le fotografie. Quelle di Nan Goldin, che, nella serie Ballad of Sexual Dependency con realistica e al contempo trasognata lucidità, ha restituito attraverso i suoi scatti l’immagine quotidiana e familiare di quegli alienati abbandonati al caos della città e ai silenzi di paesaggi interminabili. Gli amici, gli amori, i viaggi: Nan Goldin ha saputo cogliere lo spirito intriso in quegli anni ai quali guardiamo, oggi, come retaggio di un antico mito. Un passato recente ma già divenuto immaginario collettivo.

-La Graffiti Art

Contesto urbano, sociale e culturale sono alcuni degli elementi determinanti la nascita e lo sviluppo del fenomeno della Graffiti Art, quella ”sorta di espressione di grado zero che l’umanità ritrova in diverse fasi evolutive della filogenesi…quando si tratta di rendere vivibile uno spazio circostante che la classe dominante…ha reso inospitale”. Questa definizione di Barilli si riaggancia a quanto precedentemente esposto: il disagio provocato da una politica marginalizzante nei confronti delle minoranze etniche si tramuta in un atto di ribellione che trova il punto di sfogo nell’aggressione visiva all’ambiente urbano circostante, contro quei ghetti cementificati la cui linearità e rigore si erano tramutati in perfezione, da intendere come espressione di ordine e rigore, contro i quali una gioventù, in perenne contrasto con chi si rapporta tramite imposizioni nei loro confronti, sente il bisogno di rispondere con un linguaggio proprio e ”far sì che una manualità spavalda faccia riudire la sua voce, magari in un riuso degli stessi miti e riti di cui si vale la cultura dominante: basterà riprendere le lettere cubitali della pubblicità, o qualche icona, ma ulteriormente degradata e riscritta con movenze sciolte” [Barilli]. Un linguaggio che non si oppone, dunque, a quello ufficiale, ma lo mina dall’interno, impossessandosi dei segni esteriori del potere e imbrattandoli con vergate scritte rapide, ironiche, aggressive, dai toni opachi e accesi o con quelle colate di colore tanto odiate da Gonzalez Torres che condannava quegli artisti che avevano l’abitudine di imbrattare muri e tele e di dipingere durante la notte. Il tratto più evidente è la necessità di colmare quello spazio ampio e anonimo; gesto che si traduce in un atto di possessione e limitazione dell’ambiente, nella demarcazione territoriale e, allo stesso tempo, agire in luoghi pubblici diviene contestazione e manifesto rifiuto di un sistema, quello dell’arte e della sua mercificazione; il confronto deve essere diretto e, soprattutto, coinvolgere tutti. Per tale ragione non solo i muri, ma i luoghi maggiormente frequentati dalla massa divengono il palcoscenico dell’azione dei writers: metropolitane, vetrine, cartelloni pubblicitari. È difficile cercare di dare spiegazione alle spinte centrifughe che spinsero queste maestranze anonime a sentire il bisogno di esprimersi attraverso tali linguaggi, che pure hanno contribuito a consolidare un’idea nuova di città, di quartiere e che ci portano, così, a collocarli lungo la linea di sviluppo che dal Muralismo porta alla moderna Street Art: con queste altre due tendenze le differenze sono molte e le finalità diverse, ma possiamo individuare in senso lato e in maniera azzardata dei presupposti comuni. Col Muralismo, il Graffitismo condivide l’inclinazione rivoluzionaria e l’idea di un’arte da farsi fuori dalle sale espositive e dunque un’arte di popolo e per il popolo (d’altra parte ricordiamo che alcuni degli artisti che operano a New York sono ispanici). Con la Street Art esso ha in comune il luogo d’azione, la città, e l’idea di un intervento atto a modificare l’ambiente, pur se con caratteri differenti. Se, infatti, gli street artist ricorrono ad una figurazione curata, lineare, o se vogliamo, ”classica” che si compone di immagini esteticamente apprezzabili, spinte, alle volte, sino all’iperrealismo, nell’ottica di un’arte vivibile (nel senso di rottura con la freddezza del contesto reale), i graffitisti newyorkesi si muovono in direzione opposta, ricercando non già una conciliazione con il mondo urbano, ma una sua contestazione: le loro forme sono disorganiche, ricercando non già una conciliazione con il mondo urbano, ma una sua contestazione: le loro forme sono disorganiche, dando vita a composizioni che manifestano l’urgenza di un horror vacui dal sapore eclettico in cui il rapporto tra la raffigurazione e lo sfondo non è mai sconnessa, ma in continuo dialogo. Le forme divengono spigolose, arcaiche, richiamandosi ad un primitivismo riscontrabile, ad esempio, nella produzione plastica di origine africana. Un’arte tribale, che ha portato i critici a definire i graffittisti dei capi senza tribù, a volerne rimarcare l’anonimato, la mancanza di un programma comune, ma che adottano un ”oscuro mondo di significati” in cui ”il dato esistenziale è forse quello che maggiormente investe anche la sfera artistica, il nesso fra linguaggio artistico e riscatto esistenziale svela comuni energie con le pratiche di necessità tribale e getta insospettabili ponti fra il comportamento sciamanico e il gesto artistico […] ricercando i segnali e le tracce in un ”mondo magico” che colloca nella tribù una delle strutture elementari di una grammatica sociale dove l’arte recita un ruolo protagonista” [Danilo Heccher] . Tuttavia, l’impressione che ne ricaviamo, in linea con quanto sinora esposto, ci porta ad operare un’inversione dei termini, per cui, anziché capi senza tribù, riteniamo di dover parlare di tribù senza capi, se assumiamo un diverso punto di vista che vuole nella tribù rappresentato il microcosmo del quartiere come centro e che si dipana nella dimensione più espansa della metropoli. In questi spazi si muovono questi ”nomadi dell’arte” [Achille Bonito Oliva], che assimilano il contesto e lo traducono in un linguaggio che non si affida ad un modello, ma è la risultate di diverse tecniche, mescolate e innovate sulla base delle esperienze intime di ciascuno di essi. Un linguaggio che vuole apparire ”selvaggio”, a voler rimarcare, in termini contestativi, la rabbia nei confronti di chi vede nel loro modo di vivere i retaggi di una barbarie che affonda le radici in vecchi pregiudizi.

Artisti anonimi, alcuni dei quali individuano dei capofila e si accostano artisticamente ad essi: Basquiat e Haring hanno, senza dubbio, lasciato un segno importante, ”dettando” le linee-guida anche se hanno presto ”abbandonato” la strada entrando in quel circuito dello star system dell’arte, forgiando un’immagine nuova, quella dell’artista maledetto) , riprese poi da altri, come James Brown, coi suoi feticci di richiamo agli idoli precolombiani, Ronnie Cutrone che elabora immagini tratte dall’immaginario popolare; il musulmano Rammellze che fa delle lettere dipinte sui muri delle forme artistiche, secondo codici naturalistici e come lui altri, quali Toxic, Futura 2000, ecc. Piccole tribù che hanno segnato una generazione.

-A. Celletti

Fonte immagini: web

Fonti Biografiche:

-R. Barilli, Prima e dopo il 2000, la ricerca artistica 1970-2005, ed. Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2014

-B, Cartosio, Gli Stati Uniti Contemporanei, le strade verso la superpotenza (1865-1990) ed. Giunti, Firenze, 1992

-M. Cattelan, Intervista a Felix Gonzalez Torres, 1995

-D. Eccher, Presagi di Tribalismo Contemporaneo, in Le Tribù dell’Arte, a cura di A. Bonito Oliva, ed. Skira, 2001

1Ricordiamo come già Nixon e Carter si erano mossi in tal senso: quest’ultimo in particolar modo fu responsabile di quella ”femminizzazione della povertà, riducendo i sostegni alle madri con figli a carico. Lo stesso Carter, che fu eletto grazie al sostegno del movimento sindacale e delle minoranze etniche, ben presto mutò verso di loro la propria politca, limitando il primo e marginalizzando le seconde.

2Un esempio in tal senso è un brano della stessa Madonna, Papa dont’ preach, che racconta il conflitto generazionale dei giovani contro un ordine patriarcale ancora forte, iscritto in un contesto politico e culturale preciso: quello relativo al dibattito, allora ancora molto ostico, in materia di aborto.

3Un contributo importante nello sfatare tale mito sarà il gesto, compiuto negli anni ’90, dalla principessa Diana, che, andando in visita nell’unico centro allora esistente nel Regno Unito, strinse la mano ad un malato di AIDS senza alcuna protezione

4Si consiglia: sulla vita di Gia il film ”Gia, una donna oltre ogni limite”, di Michael Cristofer, 1998; su Basquiat l’omonimo film, regia di Julian Schnabel, 1996