”Un’insolita sfilata”. La moda racconta l’HIV

‘Un’insolita sfilata”, l’evento di moda per celebrare la Giornata Mondiale di Lotta all’AIDS

”Non c’è nulla da dire, c’è solo da essere, c’è solo da vivere,,

Piero Manzoni, Libera dimensione, in Azimuth n.2, 1960

E dunque potere alla fantasia! Potere all’immaginazione e alla creatività! Potere alle emozioni e alla voglia non solo di esporre, ma soprattutto di esporsi!

Sembrano siano stati questi gli imperativi che hanno accompagnato la realizzazione di un progetto ambizioso come è ”Un’insolita sfilata”, l’evento che ha avuto luogo presso il Salone d’Onore delle Arti e Tradizioni Popolari lo scorso 1 dicembre in occasione della Giornata Mondiale della lotta all’AIDS.

Non si è trattato, tuttavia, di una semplice sfilata di moda sul tema dell’HIV, ma si è tramutato in uno spettacolo unico.

Il ricorso all’arte come mezzo di comunicazione è stata una scelta che ha permesso di costruire l’intero progetto.

La concettualità, l’immediatezza espressiva, la fluidità e l’ipertestualità, nate dall’aggregazione di diversi mezzi espressivi hanno creato attraverso le immagini, la musica e persino la moda racconti visivi efficaci, capaci di veicolare messaggi e concetti sfruttando il potere della fantasia.

Per realizzare ”Un’insolita sfilata” è stata la dimensione dell’intermedialità, ossia l’intreccio di diversi mezzi espressivi, a dar vita ad un’opera straordinaria.

Un evento che è stato possibile realizzare grazie al supporto di molti e diversi sponsor:

la UOC- Unità Operativa Complessa di Malattie Infettive del PTV di Massimo Andreoni, Tiziana Frittelli, Direttore Generale dello stesso Policlinico ;il Gay Center di Roma nella persona del suo portavoce Fabrizio Marrazzo; Studio13 MakeUp, che ha curato il make-up sotto la direzione di Paolo Panczyk e con la gentilezza di Michela Ravera; la SIMIT-Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali; Thiago Oliveira,coreografo e presidente del Sorrento CampusDance; Luca Modesti, presidente di Conigli Bianchi – Artivisti contro la sierofobia; Samuele Briatore, presidente dell’Accademia Italiana Galateo; il Roma Check Point; Andrea D’Amico, Servizi per lo spettacolo; Rotostampa Group Roma.

Un’insolita e non tipica sfilata

Non si è trattato, infatti, di una semplice carrellata di abiti su una passerella o di un evento per ricordare a tutti l’importanza della prevenzione e il rischio del contagio.

Ciò che ne è nato è stato un lavoro dal significato più profondo, reso possibile dalla sensibilità della sua organizzatrice, la counselor di Malattie Infettive del Policinico TorVergata e presidente del Gay Center di Roma Angela Infante, che da anni segue e coinvolge in diversi progetti persone sieropositive e sierocoinvolte nell’ambito del laboratorio HAARTisticamente.

<<Tre anni fa mi venne in mente questo progetto, per il quale volli usare l’acronimo HAART, che a livello fonetico richiama la parola inglese ”art”, ma che in realtà si riferisce alla terapia che le persone sieropositive seguono. Era un progetto triennale, anche se molto in embrione ad essere sincera. Il primo anno nel 2017 sono stati fatti dei laboratori artistici, sempre a tematica HIV, grazie a cui i partecipanti hanno avuto la possibilità di esprimere la loro idea circa il contagio, la cura o la malattia in generale>>.

L’organizzatrice dell’evento, counselor di Malattie infettive del PTV di Roma e presidente del Gay Center Angela Infante

A questo ha fatto seguito lo spettacolo ”Alice e Cornici”, del 2018, in cui si chiedeva ai partecipanti di reinterpretare l’opera di Lewis Carrol per dare una chiave di lettura individuale, introspettiva e critica sul mondo della sieropositività, diversa dagli abituali concetti stereotipati.

”Un’insolita sfilata” non è che il punto di arrivo di questo percorso, strutturato in maniera tale da sommare al suo interno elementi dei precedenti laboratori, in particolare la creatività e la dimensione teatrale nella dimensione del racconto e della maschera.

<<Quest’anno abbiamo voluto fare una sfilata di moda. La moda attualmente forse non viene considerata un’arte, anche se a tutti gli effetti lo è. I temi erano ”Cura” e ”Contagio”, interpretati secondo la personale esperienza di ciascun partecipante. E’ stato strepitoso, perché mentre crei un vestito o cerchi il materiale è lì che fai il vero lavoro. C’è una parola che mi piace usare per quest’ultima esperienza che è ”resilienza”, cioè la capacità di trasportare in positivo situazioni difficili. Il risultato a livello di costruzione dei costumi, scelta degli accessori, disegno degli abiti, scelta dei colori , la spiegazione dei materiali è stato eccezionale>>.

Un’ Insolita Sfilata’‘: oltre i veli dell’apparenza

Giordano Bruno scrisse che comprendere equivale a vedere forme e figure immaginarie e dunque comprendere è fantasia.

L’accettazione di sé, della propria condizione passa attraverso la comprensione: per questo la sfilata ha rappresentato il culmine di un percorso finalizzato ad una sorta di redenzione, di un mea culpa che si sente di dover scontare nei confronti della società. È la condizione dello straniero che Albert Camus aveva saputo ben descrivere: sentirsi colpevoli anche laddove non lo si è; portarsi addosso il peso di una condanna anche quando invece che ferire si viene feriti.

Ogni abito ha in sé una storia, una confessione: è un percorso che da una sorta di complesso edipico (l’atto metaforico dell’accecamento per non vedere e non essere visti) porta ad un nuovo battesimo, l’atto finale del bisogno di redenzione, della necessità di esistere.

Perché <<Esistere è essere visti>>, come scrive John M. Hull ne ”Il dono oscuro”. Per comprendere la connessione tra l’esistere e il vedere bisogna considerare il significato di quest’ultimo verbo: vedere è un atto complesso, che va ben oltre la sfuggevole osservazione o il superficiale guardare. Vedere significa scorticare la corteccia dell’apparenza, superare il visibile per cogliere e comprendere il particolare, mettersi a nudo travestendosi.

La visibilità, d’altro canto, non è che ”il fantasma estetico di cui ogni uomo ha bisogno per sopravvivere” (\), la sottile linea tra il visibile e l’invisibile, tra l’essere e l’apparire.

Sono i dettagli a fare la differenza; i partecipanti al progetto lo hanno ben compreso e hanno affidato proprio ai particolari le chiavi di lettura dei loro abiti.

I loro fantasmi estetici sono la Cura e il Contagio, che hanno assunto la forma di abito, la forma dell’anima, forme che si possono apprezzare nel catalogo.

Ogni cucitura assume allora un valore ambivalente: perforando la stoffa ogni ago è come un pugnale attraverso cui trafiggere il Contagio, ma ogni parte di tessuto che viene cucita ad un’altra ha il valore di rinsaldare i frammenti di un’esistenza che la Cura ridona, genera dal nulla. Da ogni cucitura nasce un abito da indossare che, come la Cura, serve a proteggersi e a proteggere.

Ogni dettaglio cucito è un atto di espiazione che prende forma con il suono, attraverso un passo a due femminile ed un assolo maschile.

Ecco allora che un oggetto inutile come un rotolo di carta igienica diventa simbolo del rifiuto fisico e mentale, del sentirsi privi di valore, della condizione stessa di chi scopre di essere sieropositivo, come in ”Dialoghi tra gli scaffali” di T.C., che ha poi aggiunto una pellicola trasparente a significare la cura, la non paura di nascondere. È lei la vera protagonista dell’abito.

Guanti rossi, catene e bulloni: in ”Pose/Self love” di C.C, ciascuno di questi oggetti è indissolubilmente legato all’altro, come il legame che si viene ad instaurare tra sangue e virus, tra il contagiato e la malattia. Ma i bulloni e le viti, collocate all’altezza del cuore e della schiena rappresentano: <<La forza di volontà che, unita alle cure più recenti, fa funzionare di nuovo il corpo e l’anima, e dunque la Persona. Alcune molle di orologio sono legate all’abito ma sporgono libere in alcuni punti e simboleggiano il doversi prendere cura di sé stessi, senza mai dimenticare che bisogna ricaricare costantemente tali meccanismi del corpo e dell’anima per poter funzionare sempre al meglio>>.

In ”Lonliness” di F.G. fili di lana, pon-pon e bottoni sono un richiamo al sangue: i fili lungo il corpo simboleggiano la molecola di RNA, mentre i pon-pon attaccati a delle spille metalliche ricordano la struttura del virus.

Altri hanno giocato invece sul cromatismo: tre sono stati i principali colori, il nero, il bianco e il rosso.

Di forte impatto è ”La dama bianca” di P.C.: un abito complesso, fatto con materiali poveri, che se da un lato vuole simboleggiare, attraverso la figura della dama, la gabbia delle costrizioni e delle convenzioni, dall’altro la struttura dell’abito è stata pensata per aprirsi <<Come il bozzolo che racchiude la crisalide, per permettere all’uomo nuovo al suo interno di mostrare semplicemente e pienamente sé stesso, certo della sua identità e del suo pieno diritto di esistere>>.

in ”Sfumature” ha voluto giocare sulle tonalità: << Ho deciso di utilizzare in nero, il grigio, il bianco e tutte le sfumature tra l’uno e l’altro colore per simboleggiare il passaggio da un sentimento negativo ad un positivo. Il trucco bianco sul viso è simbolo di un’accettazione non solo emotiva, ma anche intellettiva. Il rossetto è rosso, come rosso è il colore tipico della lotta contro l’HIV e l’AIDS>>.

Storie che si incontrano, si sovrappongono; tutte attraversate da sentimenti simili, quelli della iniziale sconfitta e poi della reazione, della lotta, del voler riprendere in mano le redini di una vita che si credeva finita.

Un’occasione anche per ricordare quanti hanno invece perso questa battaglia, come il già citato ”Pose/Self love” o ”La cura nascosta” di L.M. che ha voluto richiamare col suo abito il mondo delle discoteche degli anni ’80, il decennio durante il quale il virus si è diffuso e ha provocato numerose vittime.

Ogni abito pertanto deve essere visto, infatti lo si trova in un piccolo catalogo stampato per l’occasione, per venir compreso. È qui il senso della citazione di Hull, nell’andare oltre il significato contingente di un capo d’abbigliamento e ricercare il significante, la sua interpretazione, il suo essere parte di un insieme unitario.

È importante capire che quello che questi ragazzi hanno fatto va ben oltre l’esibizione. La loro creatività è nata ripercorrendo lo spettro delle loro paure, ma anche dalla soddisfazione della loro vittoria, del non essersi arresi.

Si sono esposti, si sono raccontati e soprattutto hanno posto interrogativi.

Una tensione rotta dagli intermezzi coreografici, che come una catarsi hanno rappresentato il culmine dell’evento, uno dei momenti più vibranti.

Una fiaba: questo, tutto sommato, è stata ”Un’insolita sfilata”, il cui protagonista è stato il Contagio, contrastato dalla Cura, un’antagonista buona, che ancora, tuttavia, non può scrivere la frase ”lieto fine”, anche se i progressi della scienza sono stati enormi e si continua a cercare una soluzione, pur nel silenzio provocato da una disinformazione che, soprattutto in Italia, rende ancora oggi un tabù il tema delle malattie sessualmente trasmissibili.

Una questione di civiltà

La moda è arte e, come tale, anche essa diventa una questione politica, religiosa e culturale. Per questo motivo la scelta di una location, quale il MuCiv di Roma, assume particolare rilievo.

Questa infatti, non solo conferisce un valore di artisticità a questo evento, ma sottolinea l’importanza di tornare a focalizzare la questione dell’HIV a livello sociale. È da qui che è necessario oggi ripartire; è necessario tornare a parlare di questo male che la medicina ha saputo limitare attraverso una cura, che, se permette di sopravvivere, non ha debellato una malattia che continua a diffondersi e mietere vittime in ogni parte del mondo.

Bisogna, tuttavia, anche rivalutare a tal proposito il Museo, non più concepito come luogo di mera conservazione della storia e dell’identità collettiva, ma anche come punto d’incontro, confronto e dialogo per costruire una coscienza e una memoria presente e destinata ad un futuro imminente. Certamente la scelta di un Museo simbolico come il MuCiv ha un valore profondo, perché in esso si conserva un patrimonio non solo di beni materiali, ma che incarna l’identità di un popolo, di una civiltà. Ed essere civili significa anche riconoscersi parte di una collettività, di cui si devono condividere onori e oneri, in cui nessuno deve essere lasciato indietro, per qualunque motivo.

Grande merito va riconosciuto anche allo stesso direttore generale del MuCiv, Filippo Maria Gamabari e nello specifico il direttore Gaspare Baggieri, che ha ribadito l’importanza sociale del problema e della questione LGBTQ+ e per l’occasione ha lasciato aperto aperto al pubblico il Salone d’Onore delle Arti e Tradizioni Popolari, dove l’evento si è tenuto.

Baggieri ha voluto sottolineare, inoltre, che mai era successo che un’associazione ”piccola” rispetto ad altre di livello nazionale, quale è il Gay Center, sia riuscito a collegare un evento al museo. Un traguardo importante o, per usare le parole di Angela Infante, una congiunzione perfetta, soprattutto per tornare a parlare di HIV, sessualità e omosessualità, partendo dalla radice di ogni fondamento sociale, quale è proprio la cultura e il senso/dovere morale.

Scelte azzardate o meno, ciò che davvero conta è la risposta positiva da parte del pubblico.

<<La risposta positiva del pubblico ha rappresentato per i ragazzi che hanno partecipato, specie quelle maggiormente coinvolte con l’HIV, una sorta di ringraziamento, di condivisione e accettazione>>, ha dichiarato Angela Infante, che ha aggiunto: <<Ciò che più ha contato non è stata la quantità di partecipanti (anche se numerosa, il che rappresenta un fattore positivo, ndr), ma il fatto che il messaggio sia stato recepito, come ha dimostrato il fatto che ho visto molte persone emozionarsi. La scelta stessa di lasciare la Sala aperta ha spinto molti curiosi, tra cui anche bambini o madri, che mi hanno ringraziato per il coraggio di affrontare un argomento che è ancora un tabù>>.

Un tabù che è giunto il momento di scardinare.

Il progetto HAARTisticamente è la dimostrazione che è possibile confrontarsi con l’HIV, ma è anche la prova che convivere con questa malattia non è impossibile, sia per un sieropositivo, sia per una persona sierocoivolta.

È necessario uscire da schemi mentali che sono retaggio di concezioni che, si può dire, sono ormai superate. L’HIV non è un castigo divino; nessuno va a cercarsela; soprattutto, l’HIV non è la malattia degli omosessuali.

Il fatto che, almeno in Italia, non si parli più di AIDS o HIV non significa che siano scomparse e i recenti dati fotografano una realtà purtroppo drammatica.

Un contagio che ancora si diffonde.

I recenti dati dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità) hanno rilevato al 31 dicembre 2018 un aumento dei casi di contagio da HIV del 4,7%, pari a 2847 nuove diagnosi. I più colpiti sono persone eterosessuali, ma il dato più allarmante riguarda la diffusione del contagio tra le fasce giovanili (25-29 anni). Non si tratta solo di numeri, ma di un campanello d’allarme che dovrebbe risvegliare le coscienze. È necessario uscire dall’alone benpensante e di moralità. Il sesso non è peccato e le malattie sessualmente trasmissibili non sono un tabù.

Per farlo è necessario, conviene ribadirlo, partire dalle basi, da una cultura che affronti, specie con i ragazzi, argomenti ancora ritenuti ”licenziosi”.

Sensibilizzare sul fatto che una persona contagiata non lo è per sua spontanea volontà. Si può peccare di ingenuità, ma ciò non deve equivalere ad una condanna sociale.

Bisogna pur sempre ricordarsi che dietro ogni caso c’è una storia, un percorso; bisogna soprattutto ricordare che dietro ogni caso c’è pur sempre una persona.

Prima di dare lezioni di moralità ad altri è forse necessario mettersi davanti ad uno specchio ed interrogarsi, poi uscire dalla gabbia delle proprie certezze e dialogare.

-A. Celletti, C. Gazzillo

Fonte immagini: Gianorso