L’EROTISMO DEL SAN SEBASTIANO DI GUIDO RENI SECONDO Y. MISHIMA

Confessioni di una maschera è un romanzo del grande scrittore giapponese Yukio Mishima, pubblicato nel 1949.
Scritto in forma diaristica, narra le vicende di un giovane che cerca di scoprire se stesso, la propria natura.
Sin da bambino è attratto da figure maschili e femminee, ma rinnega a se stesso e al mondo la propria natura, respingendo le proprie pulsioni, negando il proprio essere.
Il brano che segue vede il protagonista alle prese con i primi approcci alla sessualità, in particolare all’autoerotismo: dopo i primi tumulti provocati da un giovane operaio, il fascino del travestimento e le suggestioni provocate da immagini disegnate e da scene di duelli e sangue, la violenza pervade il suo essere.

La sua sessualità si va definendo tra paure e inconsapevolezze e  un giorno, sfogliando un catalogo d’arte riportato dal padre dall’Italia, si imbatte in alcune fotografie relative alla collezione di opere contenuta a Palazzo Rosso a Genova.
La visione realisticamente resa delle statue lo eccita; quei corpi scolpiti, quasi palpabili, lo incuriosiscono, ma, verso la fine del libro, è la foto di un dipinto ad eccitarlo profondamente: il San Sebastiano di Guido Reni.
Mishima, quasi ossessionato dall’opera, lo descrive così:
”Il tronco dell’albero del supplizio, nero e leggermente obliquo, campeggiava sullo sfondo tizianesco d’una tenebrosa foresta e d’un cielo serotino, fosco e distante. Un giovane di singolare avvenenza stava legato nudo al tronco dell’albero, con le braccia tirate in alto, e le cinghie che gli stringevano i polsi incrociati erano fermate all’albero stesso. Non si scorgevano legami d’altra sorta […]. Immaginai che fosse la descrizione di un martirio cristiano. Ma siccome era dovuta a un pittore della scuola eclettica derivata dal Rinascimento, anche da questo dipinto che raffigurava la morte di un santo cristiano emanava un forte aroma di paganesimo. Il corpo del giovane -la cui bellezza la si potrebbe paragonare a quella di Antinoo, il favorito di Adriano, la cui bellezza fu così spesso immortalata nella scultura- non reca alcuna traccia degli stenti o dello sfinimento derivanti dalla vita missionaria, che imprintano l’effigie di altri santi […]. Quella bianca e incomparabile nudità scintilla contro uno sfondo di crepuscolo.Le braccia nerborute, braccia d’un pretoriano solito a flettere l’arco e a brandire la spada, sono levate in una curva armoniosa, e i polsi s’incrociano immediatamente al di sopra del capo. Il viso è rivolto leggermente in alto e gli occhi sono spalancati, a contemplare la gloria del paradiso con profonda tranquillità. Non è la sofferenza che aleggia sul petto dilatato, sull’addome teso, sulle labbra appena contorte, ma un tremolio di piacere malinconico come una musica. Non fosse per le frecce con le punte confitte nell’ascella sinistra e nel fianco destro, egli sembrerebbe piuttosto un atleta romano che allevia la stanchezza in un giardino, appoggiato contro un albero scuro.
Le frecce si sono addentrate nel vivo della giovane carne polposa e fragrante, e stanno per consumare il corpo dall’interno con fiamme di strazio e d’estasi suprema. Ma il sangue non sgorga, non ha ancora infuriato il nugolo di frecce che si vedono in altri dipinti del martiri di San Sebastiano. Qui invece, due frecce solitarie mandano le loro ombre quiete e delicate sopra la levigatezza della pelle, simili alle ombre d’un ramo che cadono su una scala di marmo”.
Segue poi il racconto della vita del santo, vissuto sotto Diocleziano e Massimiano, imperatori diversi, in quanto clemente il primo, odiato il secondo.
Sebastiano era a capo della guardia pretoriana; una posizione che gli permetteva, pur se segretamente, di professare la propria religione.
Era di una bellezza delicata e al contempo altezzosa, fiera. Una bellezza quasi divina.
Era solito portare sull’elmo un giglio bianco recatogli in dono da alcune vergini ogni mattina. Si narra che quando fu trafitto egli non fosse morto, ma salvato e curato da una vedova e tornato in salute, riprese le predicazioni.
Nuovamente accusato di aver offeso la maestà imperiale morì, pare, ucciso a bastonate. Mishima, in un poemetto giovanile riportato nel romanzo, descrive con immagini suggestive l’ultima alba del santo.
Destatosi da un brutto sogno in cui ”gazzarre di malaugurio facevano ressa sul petto, gli coprivano la bocca con ali starnazzanti”, si avvicinò alla finestra. Scorse allora un tempio circondato da un boschetto, le cui colonne svettavano come a toccare la volta celeste illuminata dalla costellazione di Mazzaroth. Il sorriso si tramutò in espressione di disprezzo e il giovane citò alcuni passi delle Sacre Scritture. Allora da quel luogo pagano fu come se si fosse levato un gemito. ”Un fragore simile a quello d’una strana congerie che rovinasse in frantumi, e si riverberava contro la cupola celeste tempestata di stelle”. Abbassati gli occhi vide le vergini arrivare con gigli non ancora schiusi.

-A. CELLETTI

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