IL VOLTO SOLITARIO DI SCIPIONE

Un volto solitario.
Una personalità inquieta quella di Scipione! Allegro, tronfio, arrabbiato, collerico, passionale. Una polarità, o meglio, una poliedricità, che ha portato più di un critico a parlare di ‘’volti di Scipione’’. Sarebbe il caso di parlar invece di maschere? O sono alcune maschere apposte sui volti reali di Scipione? Cercare di tratteggiare i contorni di una personalità come la sua è altrettanto complesso come cercare di definire le coordinate della sua vita. Si può in via del tutto semplificativa distinguere dapprincipio tra un volto ‘’pubblico’’ di Scipione e uno ‘’privato’’. Il primo è quello che si è cercato di delineare nei paragrafi precedenti: lo Scipione, dunque, spensierato, sbruffone, amico di tutti. Quello che chiamiamo ‘’privato’’ però interessa maggiormente.  Si premette che non vi è alcuna intenzione di presentare Scipione come una sorta di Dottor Jeckyll and Mr. Hyde, ma una certa rassomiglianza la si può istituire nella misura in cui nel pieno della sua solitudine Scipione si carica di una forza tale che lo inebria e che scarica con una foga tormentosa sulle sue tele. Soddisfa in tal modo i suoi desideri più reconditi, barcollanti tra il delirio sessuale e lo spasmo della redenzione. Procediamo con ordine. Si è avuto spesso occasione di dire in precedenza di come l’artista, salutati gli amici, abbia l’abitudine nelle notti d’estate di non rincasare e bighellonare solitario per le strade di Roma. In quella Roma falsamente puritana 1dove ormai alle dieci di sera scatta il coprifuoco e le brave persone si rinchiudono nelle case. Sulle strade allora, avvolte dalle tenebre notturne, si riversano quei relitti della società che fan di crimine e mancata virtù il loro pane quotidiano. Balordi, puttane, marinai, soldati in libera uscita, o ‘’disertori’’ per un poco d’amore, ubriachi: la feccia della società popola la città nel momento della giornata più congeniale a commetter peccato. Una Roma caravaggesca, dominata dalle ombre, dove fievoli raggi di luce illuminano le vie della perdizione. Nei vicoli, nelle arcate, sotto i ponti, nel buio si sospira e ci si nasconde, qualcuno bisbiglia e qualcun altro urla. La bianca e cattolica città che Mussolini sogna, si tramuta in una Babilonia nera e demoniaca.  Scipione ama questo volto di Roma: vi si aggira con tranquillità, si ferma sotto i ponti a spartire il pane con le meretrici, si muove da una piazza all’altra, come se quella fosse la sua vera città, come se solamente allora gli si rivelasse alla mente il senso ultimo delle cose. Perché tra quelle ombre può liberamente esprimere se stesso, può, infiammato dalla passione, cedere ai suoi più turpi bisogni. E solo quelle prostitute lo possono soddisfare. Ama le donne Scipione! E se son brutte e in carne ancor meglio. Si osservi La Cortigiana romana per rendersi conto dell’ideale di bellezza che lo ossessiona. Di amore non si tratta, ma è una passione che lo infiamma nelle viscere, un bisogno della carne che lo divora in quelle notti galeotte. ‘’Aveva un carattere passionale, troppa passione per un uomo […] ha minato la sua salute’’2, dirà Antonietta Raphael. E che la salute gliela abbia realmente minata lo si può affermare da una lettera alla madre del 1925 in cui dichiara di avere un’infiammazione in gola che gli ha tolto la voce, prospettando, lo specialista, che sia sifilide. Così l’abbandonarsi a quegli amori occasionali, sporchi, lo hanno condannato ad una nuova rinuncia. Avendo dovuto abbandonare l’atletica a causa della tubercolosi, ora è la sifilide ad imporgli una nuova e pesante rinuncia: quella del piacere.

Si provi ad immedesimarsi in un giovane ventenne che sputa sangue e non può neanche vivere le sue prime esperienze virili; quale umiliazione, o quale pesante senso di colpa a dover forse rinunciare all’idea di una sua famiglia, proprio allora che Mafai diventava padre. Un certo rammarico sembra d’altra parte profilarsi nell’ultima lettera al fratello Goffredo, scritta pochi giorni prima di morire, in cui esprime la sua gioia per lui che ha una così bella famiglia perché bisogna sempre valorizzare gli affetti3. Consapevole della privazione di quella gioia, al povero malato non resta che condividere la sorte con quei derelitti altrettanto peccaminosi e malati quanto lui, gli unici che in qualche modo possano capirlo e non giudicarlo. Al richiamo del corpo femmineo cede, ma spento quel fuoco, nuove fiamme divampano e bruciano la sua carne: quelle della redenzione, di un miserere mei, di una costante preghiera di perdono a Dio. I tormenti di Scipione scorrono nelle sue vene in quella solitudine, in quelle notti; sono la fibra del suo essere, ne scalfiscono la persona e lo spirito. E quando il demone della carne lo scuote perché si abbandoni a quei corpi che lo desiderano, lo invita a peccare, a godere delle gioie della vita, una luce divina sembra richiamarlo ai suoi doveri di cattolico di Santa Romana Chiesa. Aveva sempre un tizzo acceso in bocca, ch’era la presenza del diavolo col fuoco dell’inferno in cui il pittore credeva. Per questo amava bere alle fontane di Roma: per spegnere, con quell’acqua santa, l’arsura peccaminosa4; un’acqua inviata dal Cielo, un battesimo di una nuova rinascita per quel volto angelico in un corpo indiavolato.
Si sente sempre un prediletto Scipione: un predestinato, qualcuno a cui Dio ha concesso sempre molto, pur privandolo di altre cose. E Dio lo chiama, sente gli ‘’strilli degli angioli’’, o il loro canto che si espande a portar l’agognata salvezza in quelle vie del peccato. Ma Scipione vuole ignorare quelle voci e confesserà: << Oh! Avessi io dato retta a quella voce che mi seguiva da presso e con la quale Dio mi indicava quella che doveva essere la mia vita. Oh! Che adesso sarei a cantar le lodi del Signore, invece di essere un rottame di naufragio che l’oceano deve consumare>>5Rifiuta la voce del suo Dio che lo chiama a sé. Si riferisce ad una presunta vocazione, alla quale sarebbe stato indotto da quel padre spirituale di Grottaferrata al quale la lettera è indirizzata. Una lunga lettera, una vera confessione epistolare in cui l’artista ammette la sua debolezza, la sua ritrosia a non cedere ai vizi, il suo rifiuto (nel suo inconscio sentire un’immortalità regalatagli da quel Dio che ora abiura) di accettare quella ‘’chiamata’’6, perché in lui predomina la sensualità! Scriverà, infatti, che dopo quella pausa bianca7 <<fui ripreso in un vortice, appunto, in cui la mia natura di sensuale precipitò, e adesso vedo, appunto, che cosa era il mio corpo in balìa di se stesso e senza l’aiuto di Dio>> e prosegue con la confessione spassionata del piacere di quel suo peccare, ma con l’imminente castigo di Dio sempre alle porte; scrive ancora: <<nei sensi sono debole come un fruscello. Il sangue mi comincia a turbinare e io come un disgraziato cedo a ogni cosa, al pensiero, all’azione, a tutto. Il sangue è un incendio nelle mie vene e non vuole che bruciare ogni cosa. […] Ero dominato dalla lussuria infame. Dentro il mio corpo c’era una bestia immonda che si ravvoltolava nelle mie membra, che pure una volta erano solo di Dio. La mia fantasia diventò del tutto corrotta e servì a farmi precipitare in una abbietudine morale tremenda>>8.
Una notte poi vagando senza meta arriva vicino al Gianicolo e sente come un mormorio di preghiera e ‘’quelle preghiere nella notte mi scossero e allora cercai l’entrata di quella casa’’. Il mattino seguente torna sul posto e scopre una chiesetta ed entrato si confessa; chiede nella lettera se a questo punto queste non siano prove a sufficienza per abbandonare la vita dissoluta e dedicarsi alla rettitudine… ‘’ci fu, è vero, un momento di abbandono e rimorso. […] Ma poi. Padre, poi come dirLe che sono un buono a nulla, un disgraziato, un infelice?’’9Scipione schiavo dei propri tormenti, combattuto tra la Grazia e il bisogno di perdono e la perdizione e la malattia.  Si è citato spesso in questo capitolo il De Angelis, testimone diretto delle imprese rocambolesche del Bonichi e in fondo suo ammiratore; vale la pena richiamare anche un interessante parallelo che istituisce tra Scipione, Modigliani e Van Gogh. Tutti e tre altalenanti tra il bisogno di Dio e l’abiezione più turpe. ‘’ Van Gogh si improvvisa predicatore, Modigliani ha sempre in bocca il suo Dante, che cita soprattutto nei momenti di ebbrezza, a fustigare l’ignoranza e i costumi della gente; lo stesso Scipione è tentato di indossare il sajo certosino, e in ogni caso non si stanca di implorare da Dio misericordia e salvezza. Intanto essi si consumano nella lussuria. […] Questi servitori di Dio hanno il diavolo in corpo. […] Vincent si indirizza verso gli operai e i minatori, Scipione tenta […] di estrarre simboli dal cielo sfolgorante di Roma. Modigliani […] il suo inferno personale se lo coltiva a dovere, sputando sangue e imbottendosi di alcool e droga. […] Chi li sostiene, chi li incoraggia se non il vizio e il peccato, il rigore e l’ossessione del lavoro?’’10  ‘’Tre arsi vivi’’, come intitola il capitolo il De Angelis, bruciati dal fuoco dell’arte e del desiderio, liberi e spregiudicati, peccano sapendo che hanno già il perdono di Dio, che quei mali sono il castigo meritato e, come a dire, ‘’ormai il dado è tratto ’’, si abbandonano ai desideri e lo fanno con tutto l’ardore e il piacere della trasgressione. Senza regole, incarnano lo spirito ribelle del nuovo secolo. Rinnegano il Padre, ma sentono il bisogno di averlo accanto, perché solo Lui può concedere un poco di requie a quelle lacerazioni della carne e dello spirito che come un Cerbero sempre affamato li dilania costantemente. Angeli ribelli, figli di un secolo degenere. Guardiamo bene Scipione: lui è un grande ‘’trasgressore’’. Cattolico, anche si ci prova, trasgredisce ogni precetto che Santa Romana Chiesa impone; ama la carne e vi cede, giacendo con donne dissolute e senza Dio o le insegue e le tormenta. È un grande bevitore, si azzuffa, si circonda di bulli, ‘’sportivi, modelli, burini’’11; legge versi di poeti banditi dalla censura, sfida le convenzioni e le leggi girando dopo il coprifuoco. Eppure è nato in una famiglia di fedeli all’arma! Anche come pittore si oppone ai linguaggi retrivi dell’Accademia o a quelli imposti dalle mode del tempo, contrappone alla bianca e classica Roma fascista, la sua città, barocca e rossa, il tutto per volger ad una pittura libera, che gli permetta nell’angolo nascosto della sua stanza di urlare la sua perversione, riversarla negli impasti materici e in quella luce rossa che inonda di erotismo tutto ciò che travolge. È un uomo libero Scipione e ama la libertà, il non dover render mai conto a nessuno. Ecco perché predilige la notte: può essere se stesso senza che nessuno veda.  Le notti però volgono al fine e allo spuntar del sole anche i suoi tormenti e gli incubi sembrano dissolversi e l’artista se ne torna verso Piazzale del Laterano dove l’obelisco gli indica la meta e la Scala Santa gli rammenta il mea culpa dei suoi peccati. Un’ultima bevuta a qualche fontana e purificato se ne può tornare a casa. Sino ad ora si è descritto un lato poco edificante, anche se affascinante, da pittore maledetto, di Scipione; ma questi mostra anche un altro volto: non è solo un amante voglioso a caccia di meretrici che si gli concedano senza troppe remore, ma ama, si innamora e forse soffre. Si ricordi la lettera a Falqui sulla persona cara di Via Giulia12. L’accento dolce con cui si rivolge all’amico nel rammentare la fanciulla dimostra che a lei Scipione dovette tenere molto e il De Angelis suppone che dipinti come Ritratto di Ragazza o quello di Donna che si pettina, entrambi del ’30, possano forse raffigurare questa donna o un’altra sicuramente amata dall’artista. Il primo, come lo descrive lo scrittore, non ha nulla di statuario o fatale, un vero ritratto di fidanzata, da serbare nell’angolo dello studio. Nulla a che fare con la sensualità o la passionalità della Meticcia o della Cortigiana. Un ritratto puro, di una ragazza come tante altre. Eppure è un volto carico di tristezza. Che sia un addio di Scipione all’amore casto una volta saputo di essere perduto? Un desiderio di fermare nel tempo quell’attimo di felicità? Lo carica di note romantiche, dunque, il De Angelis e in assenza di prove le supposizioni possono essere del tutto valide; come scrive l’autore de L’avventura di Scipione pittore romano, ci rifiutiamo di credere al mito di uno Scipione solo tentato dalle meretrici o dalle ninfe dei boschi. […] Una donna ci deve essere pure stata nella sua vita, […] come in quella di Modigliani13.
L’altro dipinto, invece, si avvicina al prototipo di ragazza che piace all’artista: un po’ robusto, scolpito all’antica14, un volto rotondo da vera ‘’romana de Roma’’, trasteverina o al più ciociara. Ritratti di donne colte nella loro quotidianità e semplicità, bellezze vere e sogni di una vita condotta all’insegna della virtù e soprattutto, per lui ormai malato, di una mancata normalità. Ma il suo cuore si colma di un amore ancora più grande, incondizionato e puro: quell’amore primigenio e assoluto, l’amore di un figlio verso sua madre. Scipione la ritrae bella nella sua linea classica e severa, coi capelli biondi e la fronte presaga, investendola di un’aurea di sacralità che fa assumere al dipinto tutto l’aspetto di un’icona; d’altronde non ha mai dipinto madonne (‘’l’arte sacra moderna non esiste!’’), ma sua madre si presenta come tale, lei che patì quegli amori burrascosi e il triste destino del figlio; lei che come la Vergine Maria segue il figlio nel suo calvario e, ai piedi di quella croce nel Sanatorio, ne cinge il corpo esanime, circondato dalle Maddalene angeliche e sorridenti delle suore, ultimo suo peccato ed emblema della costante presenza di Dio. Scipione dedica anche a lei un ‘’un ritratto casto e velato da una luce di perdono: quel perdono che reclamò sempre. […] Un ritratto umano di donna misericordiosa ed austera, il tributo di amore di un figlio predestinato a durare nel tempo, […] l’eternizza [la madre], o almeno spera, in un quadro <<fermo>> come un canto gregoriano’’15.Emerge dunque anche questo volto ‘’buono’’ di Scipione, che, sempre secondo il De Angelis, è anche un volto timido, sul quale appone la maschera della boria, che si traduce poi in una arroganza ingiustificata, in una aggressività senza ragione. Timidezza e spavalderia si alleano in lui sino a falsificargli il carattere, ch’è ardente e impetuoso, non calcolatore, né ipocrita16. Si crea un suo personaggio Scipione, presago forse della propria grandezza: ma quel suo modo di fare incuriosisce gli amici, lo rende divertente, perché dopotutto quel ragazzo imponente non è cattivo, è sempre allegro, spensierato, nonostante il male che lo sta annientando. Non ama d’altronde farsi troppo commiserare o lo fa solo quando gli può tornare utile. Un’altra testimonianza ci conferma la timidezza di Scipione: sembrerebbe che egli porti sempre con sé il suo quaderno di appunti, come fanno in molti in modo che, se l’ispirazione dovesse coglierli, la possano annotare. E così in molti disegnano, scrivono e così via. Lui mai. Ha con sé il quaderno, ma ‘’non tracciava mai linee’’. Ed è così che possiamo concludere dicendo che Scipione ha bisogno di stare solo per dipingere. Il suo genio esplode nel silenzio e lontano dal mondo o da occhi indiscreti, nell’angolo della sua stanza o nelle piazze deserte all’alba di Roma. Nella solitudine il demone dell’arte lo possiede, lo inebria, lo scaraventa in un estatico stato di trance che gli scuote l’anima e tale moto si riversa nelle vibrazioni di quelle linee, di quei colori ‘’scossi’’ da un’eccitazione tale che solo in un’alcova si possono manifestare. Nella solitudine Scipione scopre se stesso, ma vi deve fare anche i conti. Le lettere scritte durante il soggiorno ad Arco ci parlano di un uomo che getta le maschere, pulisce il suo volto dalle pitture di cui lo aveva celato e si mostra per come è: quella debolezza, che lamentava nel cedere alle passioni, si tramuta in una paura nuova, quella dell’inesorabile, nella convinzione di una grandezza forse troppo effimera. Eppure dirà: <<Mi accorgo che la mia vita non poteva che essere così, perché io arrivassi a comprendere certe cose, e a ridirle coi miei mezzi… >>17. Appella dice che Scipione si autoesorta, dialoga con se stesso. La stessa infermità è gestita e trasformata in condizione del dipingere e dello scrivere, entrambe articolate da un desiderio inconscio. È la nostalgia dell’intero, il senso unitario della vita, ciò che Proust chiama ‘’teoria della memoria involontaria’’: un affiorare di ricordi incidentali che ricostituiscono la propria realtà autentica18. E nello scavare in questa realtà si scopre vuoto, debole, mortale:
Io sono la voce dell’albero che cade,
la mia corteccia sarà accarezzata
quando si vedrà che dentro sono bianco…
Io sono la voce del fanciullo,
le mie osse sono tenere e possono cadere
e non si romperanno.19
Sfogliando le pagine delle Carte segrete ci si rende conto del cambiamento di carattere di Scipione. A quella speranza di rimettersi in sesto presto, segue poi verso la fine, la consapevolezza di una guarigione troppo lenta o che non giungerà mai. Dopo la mancata operazione prende definitivamente consapevolezza di essere spacciato. Allora quella solitudine diviene insopportabile, quella stanza rosa una prigione. La noia e la paura lo sopraffanno, ne influenzano gli umori di giorno in giorno.Vuole lavorare, ma non ha denaro; le lettere a Mazzacurati divengono ossessivamente una richiesta continua di vendere, vendere a qualsiasi cifra Il Cardinal Decano; ‘’Sai che 600 o 700 lire sono per me preziose’’ scrive una volta a de Libero. Ci sono i suoi amici però, le cui lettere rompono quella monotonia e gli offrono l’occasione per sfogarsi o semplicemente distrarsi. Scrive a Mafai: << La tua lettera mi ha riportato a certi grandi entusiasmi nostri così belli al ricordo e che dicevano la nostra grande unione spirituale. […] In me è stata la malattia e la solitudine a far crollare tutto quel bagaglio pesante e opprimente che abbiamo infarcito sul nostro corpo e sulla nostra vera natura. [..] Ma lasciamo stare. […] Adesso mi farò mandare i colori e ogni cosa e dipingerò, più che altro, come anche tu giustamente dici, per chiarire e conoscere i miei mezzi>>20. Mafai lo distrae, lo riporta al passato, lo fa sorridere coi suoi aneddoti, ma soprattutto con lui può parlare ‘’tecnicamente’’ d’arte: s’intendono e Scipione ammira il nuovo percorso intrapreso dall’amico, molto naturalista, ma sincero e ben riuscito. Diverso è il tono delle lettere a Falqui. Scipione è molto legato all’amico ed è forse l’unica persona alla quale rivela la sua vera indole, l’unica nei confronti della quale non teme di mostrarsi fragile. Già in una lettera a de Libero scrive che spera di vederlo da solo, ‘’in tre si è già una comitiva e ci si sforza sempre di essere allegri’’21. Cosa lasciano intuire simili parole? Che Scipione ha bisogno anche lui di gettare le maschere e parlare, sfogarsi, confessare cosa lo sta divorando e cosa ciò gli procura. La solitudine, quella bestia che inaridisce il cuore, annienta e distrugge. ‘’Voglio fermare i miei occhi, le mie mani e non vagare. […] Voglio stringere, non carezzare. […] Non faccio che rivoltarmi in questo spazio e l’infinito è grande come un lenzuolo. In esso ci si riposa; è un morire…’’22.Se alle volte ha bisogno di questa solitudine perché in essa trova il tempo di riflettere, pensare, lavorare, ci sono dei giorni in cui questa lo scaraventa nella noia più profonda che lo priva di qualsivoglia interesse anche al suo amato disegnare. In quel tedio le colpe arrivano a tormentarlo nuovamente: ‘’E io che ho calpestato la mia salute, che l’ho dilaniata e fatta a pezzi e l’ho buttata ai porci. È su di me l’ira di Dio. Io ho corrotto il mio corpo con le mani. L’ho disfatto’’23.Prende sempre più coscienza di sé, e se nell’aspetto è ancora florido, come scrive ad un reverendo nel giugno del 1933, dice, però, che i polmoni non ci sono quasi più, non ha più aria da respirare, ma lui è ‘’un albero duro da abbattere, benché sia vuoto come certi ulivi. […] Tutte le mie fibre devono stringersi e saldarsi per andare solo in una direzione. Ma questo avverrà, con l’aiuto di Dio…’’24.Il 3 novembre Scipione, come già ricordato, scrive l’ultima sua lettera. È indirizzata a Goffredo, suo fratello e Scipione sente ormai che la fine è prossima e forse in lacrime, come in tante altre lettere, avrà dato anche l’addio ai suoi cari. ‘’ Beato te che puoi camminare, che puoi lavorare, che puoi ancora adoperarti al raggiungimento di uno scopo. […] O beato te che puoi sentire sul tuo volto sprizzare l’aria fresca del mattino quando vai al lavoro, e puoi ritirarti nell’affetto della Mamma alla sera con cuore contento delle opere fatte. […] Come sento tutte queste cose sfuggite per sempre per non poterle perpetuare in me. E tutto questo perché ho rovinato la mia vita con quello che ho fatto. […] Come fratello ho dovuto aprirti il mio cuore e sento che morirei felice se sapessi i miei fratelli non sperduti, ma che tutti avessero realizzato la loro vita secondo le leggi di Dio. L’amore per voi è cresciuto negli ultimi anni ed è cresciuto insieme al conoscimento di me e dello spirito di Dio’’25.Negli anni Scipione ha imparato a conoscere se stesso. Farlo ha coinciso con la presa di coscienza della sua persona, della sua realtà e la pittura è il mezzo col quale esprimere i suoi istinti. Ha dovuto d’altronde vivere quella vita per comprendere la verità di certe cose ed esprimerle coi propri mezzi. Quale è in definitiva l’immagine che possiamo dipingere noi di Scipione? Come si ha avuto occasione di affermare all’inizio, quella di Scipione è una personalità poliedrica. Eccentrico lo si potrebbe definire, ma al contempo solo. È così che si sente e come potrebbe non essere altrimenti. Scipione non può vivere le gioie di una vita normale, lo sa, ma vuole ugualmente, riuscendoci, vivere con intensità da capogiro [Bertoli]. E tutto ciò lo ricerca nella sua Roma barocca e papale, dispensatrice di voluttà grossolane. La Roma ostile all’Italia, la Roma di Pio IX; […] città di porporati, di chierici arroganti, di intrallazzi politici; la Roma di Belli, di Pascarelli, di Trilussa26.Si è cercato anche di dimostrare come Scipione non fosse solo un’anima perversa dedita ai più vili piaceri; ama la famiglia soprattutto e in quei ‘’papà’’, ‘’mamma’’, come chiama i genitori nelle lettere, in quel saluto ai fratelli, alla gioia di quell’affetto consolidato nel tempo, traspare uno Scipione molto fanciullesco. Da ultimo della famiglia e a causa della malattia molte saranno state le attenzioni a lui rivolte, specie da quella madre alla quale si rivolge sempre con un tono di riverenza, che non esita a ritrarre come una Madonna, piena della grazia della maternità. In effetti Scipione sempre fanciullo lo è; nei suoi scherzi, nel suo tentativo di stare sempre al centro dell’attenzione, nei ‘’capricci’’ con gli amici, nell’allegria e nella spensieratezza che mostra a tutti: quel gigante cova in sé un fanciullino, che lo muove all’irresponsabilità, a poter osare tutto, con uno spudorato senso di immortalità. Chi direbbe mai che quel ‘’bamboccio’’ dalle imponenti forme sia in realtà un genio! È come la sua amata Roma: un Giano bifronte27, pacifico e bellicoso, un dio Marte quando l’ispirazione lo coglie e sconvolge le tele e il pubblico. Un giovane dalle doti eccezionali. E se non è un Dottor Jekyll o un Mr. Hyde, si avvicina molto al Dorian Grey di O. Wilde. Osserviamo l’Autoritratto del 1928: l’imponenza e la quell’aspetto statuario, da eroe antico, o meglio, da Dioscuro. Scipione stipula con demonio il patto di una giovinezza destinata a non tramontare mai. Scipione può tutto, niente può scalfire quell’Adone. Dall’alto dei Cieli però Dio lo chiama a gran voce, gli tende la mano:
Sento gli strilli degli angioli
Che vogliono la mia salvezza,
ma la saliva è dolce
e il sangue corre a peccare.
L’aria è ferma,
tutto è rosa come la carne […]28;
Ma quella salvezza ha un prezzo; il patto è rotto e Scipione ne deve subire le conseguenze: è l’Autoritratto del 1930 a parlarci della nuova condizione dell’artista. Quello sguardo alto e fiero si storce in una smorfia di dolore e stanchezza; la forza fisica viene velata dagli abiti, a celare un corpo in decomposizione o sarebbe il caso di dire in combustione: arde Scipione! Quel fuoco che sente scorrere nelle vene ora avvolge il suo corpo, lo assorbe, sembra fuoriuscire dal contesto pittorico e bruciare la sua persona, la tela: urla in silenzio Scipione, si contorce, ma accenna un lieve sorriso, quello di chi sa che dopo quelle fiamme della perdizione, divamperà in lui il fuoco della beatitudine celeste, quello della gloria futura dell’artista, un fuoco della giovinezza che eterna si scalfisce negli annali dell’arte italiana.
1In L’avventura di Scipione pittore romano, pag. 97
2Cit. in A. Geminello, Tormenti ed estasi di Scipione, pittore mistico, in Corriere della Sera, 22 agosto 2003
3In L’avventura di Scipione pittore romano, pag. 55
4Ibid. pag.97
5Ibid. pag. 45
6Scrive Scipione al padre certosino: << Ora tutto mi è chiaro. Lei, caro Padre, una volta mi scrisse essere io prediletto da Dio. […] Mi prese per mano, mi portò nella certosa e mi diceva in un orecchio: Fatti certosino.
Oh! Non era la sua voce che mi diceva quello? […] Ma io ne ridevo e, anche se consideravo la cosa, facevo un ragionamento meschino che ora proprio le voglio dire. Mi dicevo: Nella mia persona c’è una cosa che predomina: la sensualità, e quindi io riuscirei un cattivo monaco. Vedevo lotte tremende e poi una vita che sarebbe diventata falsa. Ma misero che ero! […] E se Lui mi aveva portato per mano alla certosa, non avrebbe pensato lui a frugare le mie passioni? O non era appunto perché conosceva la mia natura che aveva voluto mettermi davanti il luogo […] della mia vera felicità? Come uomo dovevo vivere nel bene, e come pittore dovevo dipingere>> in L’avventura di Scipione pittore romano, pag. 46
7Così nel testo
8Ibid. pagg. 46-47
9Vedi note precedenti
10Ibid. pag. 43
11Così in E. Trevi, Poeta mistico e carnale, ritratto dell’altro Scipione, 2007
12Vedi 2.3 pag. 34
13In L’avventura di Scipione pittore romano, pagg. 54-55
14Così nel testo
15L’avventura di Scipione pittore romano, pag. 97
16Ibid. pagg. 76 e 96
17Lettera a Falqui, 18 novembre 1932, cit. in Scipione e il Garda, 1931 – 1933: catalogo della Mostra a cura di G. Appella, pag. 16
18Ibid. pag. 19
19Scipione, Coro d’estate, in Carte segrete, pag. 13
20Lettera a Mafai, in Carte segrete, dicembre 1932, pag. 95-97
21Lettere a de Libero, in Carte segrete, settembre 1930, pag. 54
22Vedi nota precedente
23Lettera a Falqui, gennaio 1933, in Carte segrete, pag.102
24Lettera a Falqui, ottobre 1933, in Carte segrete, pag. 109
25Lettera a Goffredo Bonichi, novembre 1933, in Carte segrete, pagg. 111-112
26Così in R. Bertoli, Il profeta di via Cavour, Ed. Giardini, Pisa 2007
27Vedi cap. I, 1.2 pag. 18
28Scipione, Sento gli strilli degli angioli, in Carte segrete, pag. 10