IL CORPO RIFLESSO: la metamorfosi (II parte)

”Guardai con occhi di camaleonte la mutevole faccia del mondo,

con sguardo anonimo guardai dentro il mio io incompleto[…]

Li guardo come dei dadi in una scatola e mi chiedo se, scuotendoli,

potrebbero balzare fuori e diventare ME”.

-Anais Nin, La casa dell’incesto

A chi non è mai capitato di guardarsi in uno specchio e ricercare un’immagine diversa da quella riflessa? Nel 1978 Keith Haring, in una pagina dei suoi diari, scrive: << Se mi metto davanti ad uno specchio e osservo la mia immagine, vedo un numero infinito di modi in un cui appaio. Mi sento come se avessi mille facce differenti>>. Nello stesso brano, poi, Haring, riflettendo circa la rivoluzione che il computer stava già allora compiendo, aggiunge: <<Il chip al silicone è la nuova forma di vita. Alla fine l’unica funzione dell’uomo sarà quella di riparare ed essere al servizio del computer. Siamo già a questo punto? In un certo senso sì>>, domandandosi quale debba essere allora il ruolo dell’artista dinanzi ad uno strumento capace di ”fare ogni giorno nuove cose”. <<Credo che noi siamo capaci (con le nostre menti, le nostre tecnologie e i nostri computer) di creare computer come forme di vita che dimostrino un’efficienza di funzionamento migliore della nostra in quasi tutte le situazioni. Estetica delle macchine. I computer hanno un senso estetico? […] Il ruolo delle arti nell’esistenza umana verrà messo alla prova…l’artista del nostro tempo crea sotto la costante consapevolezza di essere incalzato dal computer. Siamo minacciati>>.

Avrebbe mai immaginato Haring che le sue riflessioni si sarebbero poi concretizzate? Ossia che, non solo avremmo creato computer come forme di vita, bensì l’esatto opposto, vale a dire che i computer avrebbero dato origine essi stessi a nuove identità?

Dinanzi ad uno specchio infiniti modi di apparire sono possibili. Rendere vive queste visioni altrettanto. L’arte può. L’arte riesce a dare sembianze all’immaginifico, al sensuoso che regna nell’inconscio. La manipolazione visiva passa attraverso l’estetica fantasiosa affidata alle abili mani del pittore o dello scultore, all’occhio sensibile dell’obiettivo fotografico o della telecamera guidate dall’abilità cognitiva dell’artista che le manovra; dall’artista-artigiano, alla cui tecnica è affidato l’arduo compito di sublimare l’opera divina, l’artista ha ripreso nelle mani il proprio corpo e si è impadronito della tecnica tramutandosi da eletto a creatore. Egli, allora, modella, come creta bagnata, le proprie carni, aggiungendo e togliendo sostanza alla materia corporea che ridisegna a suo piacimento e la estende o la proietta in dimensioni sempre mutevoli. Spodestato il Padre, egli ne ha preso il posto generando e rigenerandosi. Come avviene questa divinizzazione dell’umano? Dare una risposta non è semplice, ma possiamo provare ad istituire un parallelismo tra il presente e quanto avvenne nell’antica Grecia, allorché si trattò di dare un volto alla divinità attraverso la maschera. Jean-Pierre Vernant, citando Cassirer, parla di presenza, ossia il bisogno stesso di cogliere la divinità nell’immediatezza attraverso il simbolo, sicché ”l’immagine divina ha un valore simbolico perché rende presente un essere in una forma che quest’essere ogni volta oltrepassa e sorpassa; l’essere che più direttamente si manifesta nell’immagine, nel momento stesso in cui vi rivela, la fa apparire anche come limitata, occasionale, insufficiente e parziale” [Vernant]. È dunque nel simbolo, impresso in immagine, che, secondo Vernant e Cassirer, si manifesta il dio. Nell’artista contemporaneo il simbolo, l’eidolon, è il corpo stesso sul quale egli interviene portandolo allo stato di materia a cui assegnare una particolare identità, spingendosi sino alla sua degradazione e ricomposizione in una creatura primigenia, amorfa, androgina. È il dio protesico di cui parla Freud, declinato nella visione di McLuhan (cft. Il corpo riflesso: dal mito di Narciso verso il postorganico), capace di espandersi in dimensioni molteplici e mutarsi in altro da sé. Quel dio protesico che è la compiuta realizzazione del connubio tra l’apollineo e il dionisiaco di Nietzsche, quando riesce a fondere la bella parvenza dei mondi di sogno coll’ebrezza nascente dalla dismisura della natura nel piacere, nel dolore e nella conoscenza, fino alle urla più laceranti. Adattando il pensiero del filosofo al nostro discorso, possiamo rintracciare nell’apollineo la dimensione onirica dell’arte, intesa come apparenza e appagamento, l’illusione di cui parla Braudillard, mentre il dionisiaco si manifesta nel reale, nei suoi aspetti più drammatici e lucidamente folli. L’artista si eleva a rango divino nel preciso istante in cui riesce a velare (o adattare?) l’ebrezza dionisiaca attraverso l’apparenza di ingannevoli immagini, le quali altro non sono che l’opera d’arte in sé. Cosa rende, allora, un dio l’artista? Una interpretazione interessante è quella proposta da Cristina Baldacci e Angela Vettese, laddove sostengono che ”più la tecnologia avanza, più il corpo, che dal principio si offre dal vivo…, diventa distante. Se è vero che la mediazione di strumenti di registrazione, come la macchina fotografica, la telecamera e il computer, e di dispositivi medico-scientifici, come il micro e macroscopio o la sonda, ha allontanato le occasioni del contatto reale col corpo, è anche vero che ne ha accentuato la presenza iconica e allargato enormemente la possibilità di manipolazione”. Due sono i punti fondamentali di tale affermazione: la distanza iconografica e la tecnologia. L’essere presente del corpo e l’azione performativa hic et nunc suscita diversi problemi in relazione al loro carattere violento o immorale. La distanza e l’immaterialità del corpo riflesso risiede nella libertà d’azione che non collide con alcuna legge legata alla bioetica o alla morale: il corpo che agisce su uno schermo o è impresso sul negativo viene concepito come una manifestazione altra e irreale, transitoria, non in grado di ledere la sensibilità reale di nessuno. Il potere esercitato da questi mezzi, porta l’artista a proiettarsi al di fuori della sua persona e a creare una sorta di alter ego come riflesso o il reale specchio della sua personalità. È il dionisiaco che inebria la sua creatività, l’illusione che trionfa. È proprio quest’idea di apparenza che è alla base di quello che Teresa Macrì definisce ”corpo audace e volitivo…chimerico e quindi in continuo abbandono alla libido… un corpo che si lascia trascinare nell’esibizione più spettacolare, più multisensoriale…”. La divinizzazione per mezzo dell’incesto.

Y. Morimura, Portrait (Twins)

Abbiamo così tentato di tracciare il processo di divinizzazione dell’umano attraverso la presa di possesso del corpo come elemento simbolico e nella sua dimensione oggettuale, involucro ibrido sul quale l’estica, la medicina, le arti, trovano un fertile terreno di applicazione. Bastano trucco e parrucco, una completa depilazione, piccole applicazioni chirurgiche affinché un corpo maschile possa assumere lineamenti femminei, possa rubare il volto a personalità celebri. È la metamorfosi a cui sottopone il suo corpo Yasumasa Morimura, trasformandosi in eroi ed eroine dell’arte, del cinema, dei protagonisti della società di massa, creando con malinconica e romantica ironia, mondi abbelliti di una poeticità intesa come aspirazione a raggiungere una fiabesca illusione pittorica. Lo specchio assurge, dunque, a metafora di alienazione personale nella misura in cui riflette un’idea, un prototipo, un mondo. A prevalere è generalmente una componente edonistica, che passa attraverso il filtro di un erotismo oscillante tra il pornografico e il sublime: è il caso dei corpi scultorei di Robert Mapplerthorpe (esempio lampante e riuscito della compiuta realizzazione dell’apollineo nietzschiano), scandalosi per il fatto che l’artista ”sceglieva di lavorare in una condizione di assoluta autenticità, di testimonianza più che di rappresentazione, sfuggendo all’esercizio di sublimazione simbolica che avrebbe potuto sfruttare scegliendo, per esempio, la pittura” [Marra]. Mapplethorpe è interessato ad un corpo plastico, classico nelle sue forme, con quelle marcature che trasmettono una carica erotica che li rendono sessualmente attraenti, marcando i punti di maggiore attrazione fisica, riuscendo a tradurre in immagini il desiderio della carne e rendendolo con una classicità anacronistica. O il caso dei corpi sottomessi e umiliati di Nobuyoshi Araki, che, al contrario, riesce a sublimare il dionisiaco turbolento e perverso delle sue trasgressioni sessuali attraverso immagini delicate, pur nella brutalità di fondo di un ”delirio continuo e infinito, nel quale l’occhio fotografico si fa testimone delle incessanti peregrinazioni dell’artista tra case di prostituzione e teatrini porno”.

Sono solo due esempi di artisti che non si confrontano direttamente col corpo (come era avvenuto durante i primi anni della Body Art), ma si imbattono in un territorio più oscuro, complesso: l’inconscio. E scavano in esso, lo sondano e lo fanno riaffiorare dando ad esso una definizione, una forma e, soprattutto, concependolo come simbolo, danno ad esso una parvenza. Tutto questo coincide, storicamente, con una fase precisa: la presa di coscienza della possibilità che il corpo fosse materia sperimentale, una ”pelle sintetica” e pluri-organica facilmente manipolabile e mutevole. L’Era del post-umano, termine utilizzato da Deicht nel ’93 come titolo di una mostra dedicata alle nuove ricerche relative al corpo, si accompagna ad un radicale mutamento culturale, alla maggiore diffusione delle nuove tecnologie legate alla fotografia e al video, al loro potenziamento, che, con l’inizio del nuovo millennio, vireranno queste tendenze verso l’universo del virtuale e del ”cyberbody”, un’entità composta da chip cellulari che vivono in ambienti nuovi, ibridi, e che sembrano essere archetipi di una generazione che si muove tra il cibernetico e il reale.

ORLAN, Omnipresence, performance, chirrgia, video, foto, 1993, New York

 

A cavallo tra queste esperienze possiamo collocare il lavoro di ORLAN. Questa artista gioca col proprio corpo, modellandolo attraverso il ricorso ad operazioni chirurgiche allo scopo di ”colmare l’abisso tra apparenza ed esistenza”[Macrì], dando vita ad un essere collocato tra il cyber e il postumano, mediante l’inserimento di protesi sottocutanee. Nell’impossibilità di analizzarne l’intero lavoro, è opportuno segnalare quello che maggiormente ci appare come il ponte tra due epoche. È il 1993: la Orlan entra in sala operatoria. Attorno a lei, oltre l’equipe medica, fotografi e cineprese che documenteranno l’intero intervento, il quale verrà trasmesso in diretta in alcune istituzioni, dove, gli spettatori, avranno la possibilità di dialogare con l’artista, che rimane sveglia per tutta la durata dell’operazione.

Alcuni elementi sono centrali: 1) il dialogo per mezzo di schermi, che ribadisce il pensiero sopracitato di Baldacci e Vettese sulla distanza del corpo, relegato oltre lo schermo, nell’olimpo della sala operatoria. 2)Il valore documentario assegnato alla fotografia, poiché anche nei giorni a seguire, sino a quando verranno tolte le bende, vengono esposti dei dittici di metallo, corrispondenti ai 40 giorni di esposizione e accanto una fotografia dell’artista a testimonianza del processo di ripresa postoperatoria. 3) La metamorfosi. La peculiarità è da individuare nel fatto che, a differenza di altri artisti, dei quali osserviamo l’opera conclusa, sicché viene da domandarsi se il dio sia l’opera stessa anziché l’artista, nel caso in questione, la Orlan ci guida nel percorso di trasformazione, annullando la distanza artista-opera e offrendoci un unicum, ossia la metamorfosi in corso, in tutto il suo procedimento, attraverso un lungo rituale che inizia dalla fase pre-operatoria e termina con lo svelamento. Un vero e proprio reportage condotto inglobando il corpo nel media e virtualizzandolo, mutandolo nell’ottica illusionistica di una situazione a metà tra finzione e realtà.

L’azione analizzata segna uno spartiacque: da un lato riassume la parabola della performance degli anni precedenti, laddove il corpo era soggetto all’aggressione fisica e alla lacerazione, sottoposto vittima del furor sciamanico ossessionato dall’idea della redenzione e della purificazione, della sofferenza come medium capace di catalizzare l’attenzione sulla brutalità dell’esistenza e della millenaria menzogna dei misticismi. Dall’altro la proiezione attraverso gli schermi, l’idea di un corpo ibridato e mediatico apre ad un orizzonte nuovo, quello postorganico.

Come Michelangelo Pistoletto, brandiamo un grande martello e infrangiamo lo specchio. Si frantuma il corpo riflesso e si ricompone in nuova sostanza.

Virtual art

M. Mori, Nirvana

Cosa resta dello specchio infranto? Una soglia[Arcagni], varcata la quale si entra ”in uno spazio senza confini, fluido e in movimento […]; è un antispazio che condivide sia le qualità cosmiche del vivente che dell’inerte, spalancandosi illimitatamente e restringendosi come una fessura” [Valentini]. All’interno di questo spazio si muove un soggetto che, come scrive la Valentini, è errante, si sposta senza meta in un mondo che può impostare e reimpostare, senza riferimenti, senza limiti. Come i mirabolanti paesaggi fotografici di Mariko Mori, caratterizzati da ”architetture computerizzate inserite in foresta di fiaba…in un territorio arido e sconfinato, lughissime spiagge da cartolina protette da improbabili architetture di vetro…in cui sembra realizzarsi l’incontro-contaminazione tra le varie culture e mitologie mondiali”[Mirolla]. Sono ambienti che, come scrive Luigi Prestinenza Puglisi, sono composti da membrane, acquistano leggerezza e compongono un sistema nervoso, interconnesso. In questi mondi si muovono con altrettanta leggerezza le figure bizzarre e fantastiche di Matthew Barney. L’iconografia virtuale di Barney è suggestiva, nella misura in cui combina fattori umani, estetici e plastici che danno vita a personaggi ibridi, al limite tra il grottesco e il glamour, figure iconiche di un nuovo mondo asessutato, senza identità e categorie, capaci di oltrepassare qualsiasi sforzo fisico. Corpi elastici e mutanti, liberi padroni dei propri corpi in perfetta simbiosi col mondo ironizzato che li circonda. Quella di Barney è l’epopea futurista del disumano, del corpo camaleontico, sdoppiato. Come sdoppiata è la figura di Bjork nel suo ultimo lavoro. La cantante islandese, infatti, ha fatto del trasformismo un suo cavallo di battaglia, non dissimile da Barney, divenendo una creatura sempre nuova, oscillante tra l’umano, il ferino e il cibernetico (Army of Love). Nel suo ultimo lavoro ha dato vita ad una realtà totalmente virtuale, in cui si trasforma tra mille fasci di luce in una creatura senza connotati definiti, un essere etereo, irreale, immaginifico, catapultata in mondi non dissimili da quelli di Mariko Mori, proiettati verso una terza dimensione spaziale, all’interno della quale si libra, nuota, si muove in assenza di limiti di tempo e spazio. In The Gate (2017) dialoga attraverso il linguaggio della danza con la sua ombra, che assume la sua forma, una proiezione, simile ad un alter ego.

S1m0ne, regia di A. Niccol, 2002, frame

Diversi cantanti hanno scelto di interagire medianti avatar. Come in S1m0ne, film del 2002 di Andrew Niccol, in cui il protagonista (Al Pacino) riesce a dare vita a questa figura interamente virtuale e a gestirla in modo tale da farla apparire reale, viva. Geniale nella sua capacità di saper designare uno scenario utopico (almeno in quegli anni), Niccol ha saputo anticipare quel mescolamento di mondi, attraverso il collegamento di due identità che dimostrano di sapersi muovere in modo scambievole tra l’una e l’altra dimensione. Sulla stessa scia, i Gorillaz hanno rinunciato a mostrarsi in pubblico, presentandosi sotto forma di strampalate caricature delle loro persone, ”esibendosi” anche in live durante gli MTV’s Music Awards del 2006 insieme a Madonna. Ancora più spettacolare è il caso di Anna Varney, in arte Sopor Aeternus, la quale anche si nega e lascia che sia un androide dalle sembianze ambigue, androgine, a sostituirla. In realtà nulla si sa di quest’artista, neanche se sia uomo o donna. È l’immagine asessuata che manda in scena a caratterizzarla, concepita come forma decrepita, mostruosa, in bilico tra la vita e la morte. Un’apparenza sospesa. È uno di quei casi in cui ci ”si volge a guardare all’interno di sé, verso un paesaggio mentale”. L’androide è la manifestazione ipocondriaca della crisi dell’identità, dell’incapacità di adattarsi ad un contesto, il reale, e il rifugio poliedrico in mondi autonomi, che si adattano all’identità che si vuole far assumere all’altro sé. Il futuro forse vedrà circolare l’uomo in stile Blade Runner? O annullata la presenza fisica della carne, esiliata dall’ambiente vivente, l’uomo sopravviverà come identità virtuale in libera circolazione spazio-temporale?

No Ghost just a Shell’s project

Ci affideremo tutti a Annlee, il personaggio protagonista del progetto NO GHOST JUST A SHELL, ideato da Dominique Gonzalez-Foerster in collaborazione con Pierre Huyghe e Philippe Parreno, creata allo scopo di indagare cosa rappresenta un’identità e attorno alla quale sono nate, da parte di diversi artisti, numerose narrazioni. L’androide potrebbe essere, allora, la maschera del futuro e così possiamo dire che si chiuda quel cerchio tracciato all’inizio. I Greci ebbero bisogno di ideare un linguaggio visivo per dare forma al divino. Tale linguaggio venne reso nei termini dell’idolo, del simbolico. Con l’androide e il virtuale avremmo bisogno di ripetere lo stesso percorso. Dinanzi al terrore generato da un crisi dell’individuo che non saprà più creare un’identità, avendo perso un riferimento linguistico comune, non spetterà altri che a lui stesso riformulane uno e questo sarà la sintesi dei precendi. Da qui originerà un nuovo codice che lo vorrà bionico e cibernetico, particolare presenza in una miriade di nomadi. Egli, dunque, dovrà ricacciare dal dionisiaco caos dell’esistenza critica dei linguaggi il suo apollineo, ossia la forma più congeniale a ricreare quell’aurea onirica di immagini e ricostruire spazi che ”hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano” [Foucault].

Benvenuti nell’universo del post-umano!

-A. Celletti

Sopor Aeternus, La Chambre d’Eco

FONTI BIBLIOGRAFICHE e SITOGRAFICHE:

-A.Celletti, Il corpo riflesso: dal mito di Narciso verso il postorganico, in www.artavanguardia.altervista.org

-C. Balducci-A. Vettese, Arte del corpo, ed. Giunti, 2016

– M. Foucault, Eterotopie, in S. Arcagni, Screen City, ed. Bulzoni, 2012, Roma

-T. Macrì, Il Postorganico, ed. Costa&Nolan, 2006, Milano

-C. Marra, Fotografia come Arte, in F. Poli, L’Arte Contemporanea, le ricerche internazionali , dalla fine degli anni 50 ad oggi, ed. Mondadori Electa, 2005, Milano

– a cura di R. Scrimieri, M. Mirolla, G. Zucconi, Arte del Novecento, 1945-2001, vol. II, ed. Mondadori Università, 2014, Milano

-F. Nietzsche, La nascita della tragedia, in Nietzsche, trad. S. Mati, ed. RBA, 2017

-L. Prestinenza Puglisi, Silenziose avanguardie. Una storia dell’architettura 1976-2001, in S. Arcagni, Screen City, ed. Bulzoni, 2012, Roma

-V. Valentini, La figura umana nel paesaggio elettronico, in Allo Specchio, a cura di V. Valentini, ed. Lithos, 1998, Roma

-J.P. Vernant, Figure, idoli, maschere. Il racconto mitico, da simbolo religioso a immagine artistica, ed. Il Saggiatore, 2001, Padova