SCIPIONE, UN ARTISTA AL BIVIO DELLA STORIA. I DISEGNI

RIFLESSIONI SULL’ARTE DI SCIPIONE
Più di cinquanta dipinti e all’incirca duecento disegni oggi si conoscono e si conservano di Scipione. Un’attività proficua per una vita breve. Si è avuto spesso modo di sottolineare come fosse importante per il pittore il disegno. Mafai, nel presentarlo alla Raphael, lo descrive proprio come un disegnatore. Si concorda, però, con il critico d’arte Virgilio Guzzi nel ritenere che quando ci si riferisce ad un artista la distinzione tra disegnatore e pittore diventa vana. Eppure, sostiene, nel caso di Scipione si può realmente affermare che egli sia stato un pittore dopo essere stato disegnatore. Cronologicamente è vero. Non si dimentichi che le prime esperienze in campo artistico del Bonichi si hanno all’interno dell’Accademia. Ivi copiava i calchi in gesso. Come è vero che il disegno rivestirà nella sua arte un ruolo fondamentale. E’ alla base della pittura, come dimostrano gli studi preparatori. Questi, talora, assumo la forza di autonomi soggetti artistici. In essi molti vi individuano temi e soggetti sviluppati poi in pittura.

È opportuno, pertanto, dedicare un’attenzione particolare ai caratteri di questa produzione. Suddividendo i disegni dalle opere pittoriche e trarne così gli elementi essenziali a capire talune definizioni attribuite a Scipione. Dal suo essere antico, espressionista o addirittura surrealista.
3. I DISEGNI
”Il disegno è la vera provocazione di Scipione, la linea estrema tra il silenzio e la parola, la cronaca fedele di momenti laceranti e drammatici”1.
Per il De Angelis il disegno segna una tappa fondamentale nell’esperienza di Scipione. Rappresenterebbe una sorta di ‘’geografia spirituale’’ dell’artista, con riferimento ai suoi spostamenti, alle sua letture, alle sue passioni. Ciò ne influenza la scelta dei temi, oscillanti sempre tra il sacro e il profano e che rasentano non di rado l’eresia politica2. Sono soggetti vari: sacri, mitologici, caricature, paesaggi, figure illustrazioni.
Ciò che maggiormente colpisce di questi disegni è il segno, la capacità di Scipione di saper tracciare una linea che si carica di forti significati simbolici, col risultato di dar vita a figurazioni dall’alta carica visionaria e fantastica.
Un segno sottile e ricco di fermenti, per il quale le esperienze furono vastissime dai Greci a Picasso.  Fu per lui un modo per prendere possesso della realtà e nutrire la fantasia con sollecitazioni venute dall’esterno3.
Umbro Apollonio scrive che Scipione appare con una libertà di vena e una dotazione di mezzi quasi sfrenate. Specie rispetto a quella scena artistica dominata dal tentativo di rievocare valori plastici dimenticati (il riferimento è ai novecentisti). Egli, ultimo dei pittori romantici moderni, è portato ad adempiere a tutti i comandamenti della personalità fantastica e umana. Anche se non riesce mai a raggiungere una catarsi degli affetti e dell’umore. Rimane troppo spesso cedevole alle lusinghe letterarie, satiriche e torbidamente sensuali di cui la sua arte si nutre4.
Giuseppe Marchiori vede che in Scipione è tanto forte l’istinto creativo.
  << ironie, capricci e divertimenti entrano nel dominio legittimo dell’arte in virtù di una consistenza estetica che annulla il motivo occasionale, gesto atteggiamento o spontanea reazione>>5..
In effetti, prosegue Apollonio, una cosa che fa difetto a Scipione è proprio il raggiungimento di una saldezza di linguaggio figurativo. ‘’Egli si smarriva nelle sensazioni e nelle immagini. La sua eccitazione è violenta, rapida, brucia presto. […] Cercò di dare al suo istinto una consistenza equilibrata, una coscienza che lo persuadesse. […] Il suo è un soggettivo progredire verso la costruzione di un tema evocativo, intriso di quell’eloquenza patetica che rinuncia a un raffinamento plastico per appagarsi di una cadenza ritmica’’6. La sua si configurerebbe, dunque, come un’arte volta alla ricerca di un equilibrio: interiore innanzitutto. Scipione cerca di mettere ordine nel caos di immagini e sentimenti che sconvolgono la sua mente conferendo loro quella consistenza estetica che non è mai frutto di puro istinto, ma desiderio di razionalizzare attraverso il filtro della fantasia quell’intricato cumulo di sensazioni. ‘’Non disegna per descrivere, ma per capire il disordine fantastico provocato dal dormiveglia’’7. Tal tentativo di equilibrio interiore deve di conseguenza trovare il suo corrispondente nella capacità di saper esprimerlo in un ordine esteriore. Di qui l’importanza del tratto scipioniano.
È un segno che in alcuni casi sembra voglia incidere la carta. Labile ed evanescente, innervato in una foga trattenuta, in un vigore controllato. Un segno estroso, evidente ed oscuro8. Un segno solfureo e febbrile che si uniforma di continuo al ritmo del polso, così lo descrive Appella.
Un filo d’inchiostro di china, a volte tremolante, spezzato, macchiato col pennello, ma in questi casi è meno nitido, meno puro, che in alcuni casi diventa già pittura, secondo il De Angelis.
In effetti scorrendo nella galleria dei disegni di Scipione si può scorgere questo suo modo di tracciar linee a volte sottili, quasi incerte, come in alcuni dei suoi Nudi. In alcuni tratti il filo si rompe e si frastaglia, come nei disegni di ragazze nude distese. Dominati come da un tratto netto, ordinato, che non crea luci od ombre, né alcuna sensazione di tridimensionalità. Sono figure sospese, relegate da visioni prospettiche prive di qualsivoglia rigore geometrico in uno spazio vuoto, dominato da un letto e un corpo su di esso abbandonato in uno stato di alta tensione erotica. Il piacere passa attraverso onde sinuose, arabeschi che carezzano quei corpi e li modellano di lascivia e morbidezza. Un’atmosfera pompeiana o orientale, tantrica, come quella che si può respirare in un bordello di Singapore o in un harem turco, pervade questi ambienti scarni e ne diffonde l’odore di un piacere appena consumato, nell’abbandono estatico, stanco e discinto di quelle nude figure, carnose e soprattutto carnali, come in Nudi del 1929; si osservi la donna di spalle: ricalca nella linea serpentina la Grande Odalisca di Ingres e nelle forme voluminose il realismo crudo delle Bagnanti di Courbet . Belle, sembrano nella linea e nella semplicità formale anticipare alcune figure di fumettistica giapponese e in effetti il richiamo alle stampe orientali non è del tutto da escludere. Non s’intende uno studio diretto e approfondito di Scipione di queste ultime, ma questi disegni tradiscono una loro conoscenza e chissà forse qualche interesse. Ciò dimostrerebbe per Appella la grande capacità dell’artista di assimilare anche le soluzioni dell’arte moderna, specie francese, che molto deve alle stampe giapponesi. Scipione dimostra di averne estratto due caratteri fondamentali: l’eliminazione del particolare inutile e l’inclinazione per i luoghi di piacere e le loro bellezze, dove tutto viene rapportato alla natura e si fa manuale d’iniziazione9.
Il Trombadori vede per essi nella ‘’Venere Anadyomene’’ di Rimbaud <<non tanto l’ispirazione maledetta quanto il dato più propriamente figurativo che in quel poema è affidato alla descrizione delle variazioni del corpo femminile all’atto della piena maturità e verso l’incipiente vecchiaia>>10.
<<La policromia delle stampe giapponesi, le tinte marcate, dal sapore popolaresco, non poteva non sollecitare Scipione che nel disegno, per la prima volta, accetta il colore armonizzandolo con l’inchiostro nero, distribuendolo sui contorni per dosare o fissare l’intensità dei gesti, per sottolineare la propensione androgina e le varianti personali sull’interpretazione della femminilità e dell’amore scoperta nei Kakemono di Choju Giga con rappresentazioni satiriche di animali che fanno la parodia degli uomini tra alberi scheletrici, nei soggetti erotici di Utamaro e di Hokusai. […] Le composizioni sono costruite con abilità, si avvalgono di effetti con chiari fini decorativi, in uno stile sobrio che sfugge al convenzionale>>11
Resta il fatto che quelle donne sono lì, con lo sguardo rivolto all’osservatore e lo invitano ad unirsi a loro, a partecipare del loro godimento o lo scrutano provocatoriamente, in atteggiamento di sfida.
Hanno un carattere fortemente narrativo, facendo emergere la grande capacità di Scipione di saper ‘’parlare’’ attraverso semplici linee, la sua abile capacità di sintesi, nel concentrare in pochi e chiari particolari significati più profondi.
La maggior parte dei disegni, nudi inclusi, è del 1933; secondo Appella più la morte si avvicina e più il disegno si alleggerisce, come se il pennino non volesse osare più. Le figure assumono il carattere dell’incompiutezza, la linea si contrae, animando lo spazio di spirali e curve12.
Diverso è il tratto che caratterizza i disegni degli anni precedenti. Dal ’31 al ’33 si registra un evolvere del disegno scipioniano nella direzione, come appena esposto, di un alleggerimento delle linee. In precedenza queste risultano marcate, come scolpite sul foglio, che spesso, come riporta il De Angelis, lacerava, riduceva a brandelli per rabbia o sdegno.
Ora, quelle linee fortemente marcate sono tipiche dei disegni a sfondo religioso. Il Cardinale, un disegno del 1932, è esemplificativo di un raro gioco di luci ed ombre che Scipione applica al disegno. ‘’Il disegno puro di Scipione abolisce il chiaroscuro, ottenendo contrasti con tratteggi minuti, un vero e proprio virgolato di contrappunti che estrae la luce dal bianco e dal nero e rendono il tratteggio vibrante, rifrangente. Pascin?’’13 (si osservi lo Studio per una Madonna, del 1933).
Le immagini, spogliate del superfluo per metterne in rilievo la nudità e lo scheletro, la maschera e il simbolo14(Caino e Abele addormentati, 1932), rinunciano al corpo che ha dovuto subire una progressiva mortificazione, con profili che si stagliano in giochi di luci ed ombre che riempiono lo spazio bianco, martorizzano i corpi: in Uomo che si lava (1932), un corpo sporco che reclama l’acqua della purificazione, il gesto del giovane che si denuda si traduce, per effetto delle ombre che investono il suo corpo, in una scarnificazione di quest’ultimo, con la maglia che aderendo alla carne sembra tramutarsi nel costato scheletrico, accentuato dalla magrezza dell’individuo, il cui capo reclinato, travolto dall’ombra e quelle braccia levate e piegate sulla schiena richiamano nell’iconografia scene di martirio o di crocifissione.
Gli oggetti si appiattiscono (cfr. Natura morta, 1933), tendono all’annullamento, scompaiono del tutto. Personaggi dal volto già in ombra, assumono i toni lividi del disfacimento15. Si caricano di un significato allegorico, sprigionano la loro luce di verità, scavando negli strati più profondi dell’immaginario, in cui l’incanto si fa incubo e il tempo si annulla. Sono forme che vivono nello spazio e nella materia di un mondo che l’artista crea.
Il segno crea queste forme. Possiamo adattare al nostro caso la definizione che di segno dà Henri Focillon: esso accoglie un simbolismo che si sovrappone alla semantica, capace di fissarsi al punto di divenire semantica esso stesso16; vale a dire che il segno ha la capacità insita di andare a sostituire il linguaggio scritto o orale e nel far ciò trarre e farsi esso ne suo essere significante nuovo significato.
<<Ma il segno – prosegue- diventa forma e, nel mondo delle forme, genera tutta una serie di figure. Crea un’immagine del mondo che non ha nulla in comune col mondo, un’arte di pensare che non ha nulla in comune col pensiero. Il segno significa, ma divenuto forma aspira a significarsi>>.17
Una nuova riconquista per l’arte italiana: dopo la ritrovata volumetria plastica dei corpi con la Metafisica, ora si riscopre il valore costruttivo della linea, ossia quella che contornando la figura la fa emergere dal fondo, la delimita e la definisce. Un’ascendenza medievale che ricompare nella tradizione artistica che l’aveva generata, puramente italiana.
Un mondo di Scipione esiste? Si potrebbe rispondere affermativamente: basti osservare la sua Roma, nei suoi disegni e soprattutto nei dipinti, come La via che porta a S. Pietro o Castel S. Angelo, per rendersi conto di come quella città, reale nell’apparenza, venga dalla sua abilità disegnativa e pittorica proiettata in una realtà altra, metafisica e surrealisticamente immaginifica. Un transreale che deforma gli aspetti concreti in mondi nuovi, in mondi di cui egli ha bisogno, per citare ancora il Focillon.
La particolarità del segno di Scipione, in quel controllato vibrato, o nella foga di quell’inchiostro disperso sul foglio, risiede proprio nella sua comunicabilità: un segno che crea sì delle forme, ma queste non sono mai immagini immobili, silenziose, ma parlano con lo stesso ardire di un’opera pittorica. Non sono mai bozzi, o studi in cui i tratti si sovrappongono, cercano di conferire un effetto o sperimentano il loro significato ultimo: Scipione ‘’può ripetere il disegno più volte, l’ultimo come partogenesi del precedente, con varianti, messe in prova pentimenti e correzioni’’18. Sembra, infatti, che Scipione non tornasse mai sullo stesso disegno, ossia che egli strappasse i fogli con quelle immagini che erano per lui imperfette e cominciasse daccapo. Sicchè, come si accennava all’inizio, quei disegni, anche se in qualità di studi preparatori, assumono in sé il valore di immagini autonome, come se fossero state così concepite e dotate di una propria esistenza a prescindere poi da una loro eventuale traduzione in pittura.
<<Il disegno di Scipione, infatti, è un insieme di infiniti frammenti di esistenza da far coincidere nell’intero. È praticato alla stregua della scrittura. Il segno, come la parola, attraversa il foglio senza quasi parere e si dissolve altrove, in un dipinto o in una poesia evocatrice. […] Non sono segni nuovi questi di Scipione ma nuovo è il modo di associarli, a riprova di quanto sia coraggioso scivolare anche nella banalità per arricchirli. I ritmi, spesso, sono rintracciati sgarrando dalla consuetudine e dall’ordine, con connotazioni marginali, involontarie, e allusioni che restituiscono la discesa agli inferi della propria psiche, le cause scatenanti d’intensità febbrili>>19.
Si è inoltre avuto già occasione di parlare della tendenza di Scipione a disegnare molto. Buttava giù quei disegni e poi li lasciava lì, in attesa di deciderne cosa fare: erano in certo senso anche loro ‘’vittime’’ dei suoi alterni umori. Nella lettera a Mafai, già ricordata, scrive: << Per il disegno, è tuo – però sarà pubblicato. […] L’ho tenuto presso di me circa un mese e non riuscivo a distaccarmene perché volevo ancora averlo e perché temevo che andasse perduto nella spedizione. […] Ne ho altri, ma non posso parlarne anche perché non so che fine faranno>>20. Ne decide la sorte e ne segue gli spostamenti e soprattutto le pubblicazioni. È molto critico al riguardo Scipione e si abbandona ad una riflessione sulla diversità di un disegno originale e la sua riproduzione in stampa. Scrive infatti: << Per il disegno che avete pubblicato, va bene: un po’ deboluccio ma non è alterato affatto né il segno né il valore, e non sono del tuo parere circa i grafici. Se un grafico ha valore viene sempre rovinato, perché stando il valore di esso nella bellezza e nella sicurezza, o incertezza, della linea, nella riproduzione, questa viene sempre leggermente interrotta diminuita in certe parti, ingrossata nelle altre, mangiucchiata, massacrata dalla rotativa. Vengono alterati i rapporti d’intensità del segno se ce ne sono, ecc. Invece con un buon retino il pericolo sta nell’indebolimento dell’insieme. […] C’è che adoprate una carta pessima. […] Non vedete che che riproduzioni sfocate di fotografie pubblicate? […] Va bene che sono cose da nulla, ma sono molto brutte e soprattutto anche volgari mi sembra. Quella roba lì è il fondaccio della pittura contemporanea!>>21.
Scipione dunque è ben consapevole della diversa tecnica che distingue un normale disegno da uno grafico. Ma ancor di più s’altera per le distorsioni che le disattenzioni di che procede alla pubblicazione per mezzo di fotografia o di stampe generano su quelle opere. Eppure lui si era venuto a conoscenza della moderna arte europea proprio attraverso le riproduzioni in bianco e nero pubblicate sulle riviste o sui libri. Avrà tenuto conto di quanto poi rimprovera in relazione ai suoi disegni? Quanto avranno influito i difetti di stampa, i bianco e nero generati dal grado di luminosità a cui erano esposte le opere al momento di essere fotografate? Vale a dire, quei giochi alterati di luci ed ombre quanto hanno influito sul suo immaginario?
Non v’è dubbio che nella lettera sollevi una questione di non poco conto. Ma non era neanche l’unico. S’era in effetti aperta la riflessione relativamente alla ‘’riproducibilità tecnica dell’opera d’arte’’ e ad esporre le stesse preoccupazioni di Scipione fu, con parole analoghe, lo stesso Focillon, che nel suo Vita delle forme scrive: <<Egli (il riferimento nel testo è a Rembrandt, ma lo si può benissimo adattare anche al nostro artista) incide […] con tratteggio più o meno libero e aperto, altra volta incide come se dipingesse, cercando tutta la scala dei valori nelle volute di fuoco dell’effetto e nel mistero delle ombre profonde. Strutture fragili, che la stampa ripetuta indebolisce, smorza e infine distrugge del tutto. […] L’iconografo ed il puro storico penseranno che l’essenziale rimane, ma l’essenziale è scomparso: non il fiore, il raro fascino d’un bel pezzo, ma il valore fondamentale d’un’arte che costruisce lo spazio e la forma in funzione d’una certa luce, in una certa materia, con certi tocchi di mano. Così si definisce appieno sotto i nostri occhi, nella distruzione d’un capolavoro, la nozione attiva e viva di tecnica>>22.
Focillon fa riferimento come si evince alle tecniche passate di stampa, ma è un discorso che lo si poteva allora tradurre anche con riferimento alle vive tecniche moderne. Scipione focalizza appieno il vero problema, ma ancora un altro grande pensatore affronterà con lungimiranza e con acuto senso critico la questione dell’arte e della sua riproduzione, con nozioni a tutt’oggi valevoli: Walter Benjamin e il suo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, del 1936. Nel saggio, l’autore analizza le condizioni dell’opera d’arte nella società di massa in rapporto alle novità introdotte dalla fotografia e dal cinema. In particolare si sofferma sul significato che viene ad assumere la riproduzione dell’opera d’arte da parte di queste nuove tecnologie, il rapporto che si spezza col pubblico, il venir meno di quella dimensione rituale che lega l’osservatore al dipinto: << La tecnica della riproduzione sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione>>23, sarebbe a dire che ciò che viene ricreato non potrà mai assumere lo stesso valore, iconografico, visivo, ecc, di un originale. Gli mancheranno quei connotati che Focillon rileva in relazione alle passate tecniche di stampa, l’essenziale si disperde e ancor prima l’originalità e la purezza dei materiali, l’impatto emotivo che una tela esercita a differenza di una riproduzione fotografica, con le sue alterazioni.
<<Nell’istante in cui il criterio dell’autenticità dell’arte viene meno si trasforma anche l’intera funzione dell’arte. […] Essa diviene una formazione con funzioni completamente nuove>>24.
Tornando ora al discorso principale, resta da porre in rilievo la dicotomia che si crea tra i disegni e le opere pittoriche. Allo stile concitato, rabbioso e delirante di queste ultime si contrappone la linea pulita, definita e i toni meno drammatici dei primi.
Esiste una maturazione nel disegno scipioniano, che muove verso una maggiore calibratura e dominio del segno: anche laddove appare incerto esso è in realtà frutto di uno scopo preciso: è come se Scipione volesse esprimere un suo fremere interiore che si trasmette per mezzo della mano sul foglio, ma è un fremere per l’appunto trattenuto, razionalizzato. Anche nei temi possiamo notare una ricerca costante; si pensi alla già citata lettera a Mazzacurati in cui scrive di essere in una fase nuova e serena della sua arte, fatta di giovani che si amano, si ascoltano( Il sor Augusto e la sora Lalla, La Tempesta di Giorgione), fatta di libertà ed estasi ( i Nudi, l’Ermafrodito, alcune delle Figure). Anche dove i temi esprimono un senso di drammaticità maggiore Scipione li tratta con un fare leggero, come ad esularli dal loro contesto: ci si riferisce ad esempio a Uomini che gridano, tratto dal salmo 29, due figure che corrono a braccia levate, sintetiche nei loro tratti (la riduzione all’essenziale e l’eliminazione del superfluo di cui parlava De Angelis), quasi ominidi o alieni, con la loro smorfia di dolore. Relativamente a questo disegno abbiamo anche una testimonianza dello stesso Scipione in una lettera a Mafai: <<Dopo averlo fatto mi sono accorto che le braccia sollevate in alto degli uomini s’incrociano e formano il segno dell’evviva: W. Infatti, come è spontanea e fotografica la grafia di quel sentimento. […] il segno di abbasso [una W rovesciata] mi fa vedere due esseri che lottano abbracciati>>25. È in realtà questo forse uno dei disegni più ‘’disperati’’ di Scipione, in cui, come diceva Appella, l’incanto diviene incubo.
Negli altri si è come trascinati in una dimensione di apatia surrealista: un mondo sospeso e dissolto, in cui non traspare né dolore né gioia: una realtà altra di pace e di silenzio, fatta di luce e poche ombre. Scenografiche in alcuni casi, queste immagini vivono una loro storia, che ha a che fare con la storia di Scipione, ne vivono nella mente e nel desiderio di far ordine in quel caos che agita la sua anima l’artista le libera e le ‘’incide’’ sul foglio. Si coglie in esse quella pacatezza che caratterizza le poesie di Scipione. Amelia Rosselli, nella premessa alle Carte segrete, rileva come la poesia di Scipione sia calma, essendovi in essa una tranquillità non espressionistica che la rende del tutto individuale; anche in essa si può cogliere l’estasi religiosa, di carne e morte, ma senza l’irrequietezza tragica e distruttiva che è evidente nei quadri26.
Scinde Scipione la sua personalità: surrealista e ‘’puro’’ nelle poesie e nei disegni, espressionista e dannato quando maneggia quella che chiama ‘’la mia droga’’.
Donne nude, uomini che si lavano, cardinali, monache, frati e chierichetti, la madre: l’universo grafico di Scipione si anima di quegli emblemi che lo circondano e lo dannano; lui li imprime sul foglio, li relega in un mondo che è il mondo della sua mente e li vuole come purificare e maledire, bloccarli in uno stato di suspense, eternizzarli nell’atto stesso in cui sembrano agire. Il grido soffocato degli Uomini che gridano, le mani delle meretrici che sfiorano i loro corpi voluttuosi, la madre nobile e fiera, aristocratica, le monache come ‘’uccelli imbalsamati’’, i frati boccacceschi nella loro grassezza e lascivia: un Decamerone novecentesco, una galleria di persone, storie, fantastiche e reali; in questo Scipione può definirsi surrealista, nella sua capacità, cioè, di tramutare il reale sconvolgendolo in un ordine nuovo e paranoico. Evanescenti e labili, come il tratto del suo pennino, sembrano dissolversi (o svanire inghiottite dall’inchiostro), presenze momentanee che turbano, fanno riflettere, icone alle quali chiedere un agognato perdono tra le braccia di una prostituta o in un solitario barbaro pellegrinaggio come quello de Il Profeta in vista di Gerusalemme (1930).
Esiste, chiede il De Angelis, una costante nei disegni di Scipione? La varietà della produzione (non solo quantitativa) rende più complesso individuarla; prescindendo dai disegni commissionati per le riviste, dove a prevalere è la nota satirica, per quanto concerne quelli ‘’privati’’ si rileva in essi un fondo autobiografico: sono presenze che Scipione con molta probabilità ha conosciuto, con le quali è venuto in contatto e li lega ai significati che la sua arte vuole esprimere e che sono quelli più volte già messi in luce: i piaceri e i tormenti. In una nota quasi nostalgica, cerca a tratti di renderli grotteschi, in altri di sacralizzarli in uno scenario teatralmente barocco, o sublimare in chiave romantica scene erotiche.
A questo punto il suo obiettivo sembrerebbe essere esattamente opposto a quello prospettato da Appella: Scipione vuole rendere incantevoli, fantasticando, i suoi tormenti, ne fa delle storie, cerca in esse quel mondo che gli viene privato dalle sale chiuse dei sanatori.

1In Scipione e il Garda, 1931 – 1933: catalogo della Mostra a cura di G. Appella, pag. 19

2R. M. De Angelis, L’avventura di Scipione pittore romano, pag. 58

3A. Santangelo, cit. in A. Trombadori, La pittura di Scipione, in Scipione 1904-1933, pag. 22

4U. Apollonio, Scipione

5In U. Apollonio, Scipione

6Ibid.

7Vedi nota 143

8Così in De Angelis, L’avventura di Scipione pittore romano, pagg. 60, 61

9G. Appella, Disegni inediti di Scipione, in Scipione 1904-1933, Macerata, Palazzo Ricci, 6 luglio- 15 settembre 1985, pag. 30

10A. Trombadori, La pittura di Scipione, in Scipione 1904-1933, pag. 23

11Ibid.

12In Scipione e il Garda, 1931 – 1933: catalogo della Mostra a cura di G. Appella, pag. 23

13In L’avventura di Scipione pittore romano, pag. 59

14Ibid. pag.59

15Così in Scipione e il Garda, 1931 – 1933: catalogo della Mostra a cura di G. Appella, pag. 20

16H. Focillon, Vita delle forme, Ed. Einaudi, Torino, 1987, pag. 6

17Ibid. pagg. 8, 9

18Scipione e il Garda, 1931 – 1933: catalogo della Mostra a cura di G. Appella, pag. 21

19Ibid. in note 17 e 20

20Lettera a Mafai, dicembre 1932, in Carte segrete, pagg. 95, 97

21Lettera a Falqui, in L’avventura di Scipione pittore romano, pagg. 89, 90

22H. Focillon, Vita delle forme, pag. 66

23W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936, cit. in S. Gallo e G. Zucconi, Arte del novecento (1900-1944), pag. 306

24Ibid.

25Lettera a Mafai, dicembre 1932, Carte segrete, pag. 92

26A. Rosselli, Scipione panteistico, in Carte segrete, pag. VII