IL VOLTO SOLITARIO DI SCIPIONE. ROSSO DI PIACERI E DI TORMENTI

LUCI E COLORI: LE OPERE PITTORICHE
Scipione buttava tutto nella pittura, scrive Amelia Rosselli. Emilio Cecchi in Circoli, nel numero di marzo del 1935, aggiunge:
<< Il suo metodo era di sfrenarsi. E se fu ‘’surrealista’’, o cosa analoga, non lo fu come dilettante e un esteta, ma come agonizzante nei cui occhi si mescolano i segni della realtà. […] Non è una febbre tragica. È un massacro pieno di spenti sussulti, sguardi morituri>>.
Leonardo Sinisgalli in Ricordo di Scipione sul Meridiano di Roma parla di vena funebre più inquisitoria che romantica. Giuseppe Marchiori ci informa che Scipione era ossessionato dall’idea di grandezza, lui ultimo figlio di Roma barocca e romantica1.

Di citazioni se ne potrebbero aggiungere. In molti hanno elogiato, ammirato, venerato la pittura di questo straordinario artista romano. L’anima del gruppo della Scuola Romana, come lo ‘’elegge’’ Giulio Carlo Argan. Scipione esercita il suo istinto con passione. Tramanda la sua lezione all’ultima generazione di questa a lui di certo molto debitrice, che ammirava di lui l’urgenza sanguigna2.
S’è intitolato il capitolo ARTE DI TORMENTI E DI PIACERI e il paragrafo LUCI E COLORI. Sì perché l’arte di Scipione esprime i primi e lo fa attraverso i secondi. Manipola la materia e la piega a significare, le imprime sensi allegorici, inconsci.
<<Gli elementi della pittura di Scipione sono romani, si aggirano intorno a chiese, monumenti, piazze, ponti, i personaggi stessi sono romani e parlano, si può dire, in dialetto ma derivano dal museo, dalla mitologia, dalle alte gerarchie, e parlano, cioè, un dialetto colto, alquanto barocco e nel contempo spiritoso e severo>>3. Un’arte propriamente romana la definisce il De Angelis e ne mette in luce le derivazioni: Scipione guarda al passato, seleziona i suoi maestri, ne apprende le tecniche e va oltre, cerca sue soluzioni che nulla hanno a che fare con le ricerche contemporanee. Scipione parla una sua lingua, vive in un suo mondo e lo celebra attraverso le tele; ed è un mondo in cui l’arte appresa nei Musei si congiunge col mondo delle sue letture, dall’Apocalisse all’Inno a Caino di Ungaretti, dagli scritti di Blake ai versi di Gongora. Scipione attinge a tante fonti, le mescola in un calderone di rossi e luci incendiarie e ne trae fuori soluzioni che se stilisticamente a qualcuno non possono sembrare originali, in realtà, almeno nei significati, esprimono una realtà nuova, originale e alternativa per la cultura artistica del tempo.
Per Sinisgalli4Scipione non cerca una verità con la pittura, ma una sostanza incantevole, quasi una narcosi, un opium. Da qui la ‘’disposizione ispirata’’ scipioniana, in cui han posto il sesso, il delirio, il senso d’ebbrezza5, volendo raggiungere <<il lustro di un’illusione mirifica, la fragranza di una natura rivelata>>6.
Sono, come le descrive Marchiori, ‘’immagini liberate da ogni ostacolo di cultura e di gusto’’?
Per Garibaldo Marussi sembrerebbe di no: Scipione, per il critico, è cattolico per le inquietudini, i dubbi e la cultura, per l’urgenza di liberazione dal peso fisico della carne, ma al contempo appare ‘’pagano negli atteggiamenti della sua mobilissima fantasia che risolve per cicli pittorici la folgorazione dell’ispirazione’’7.
E in cicli pittorici il Marussi suddivide la pittura di Scipione. Ne individua tre, ma in questo capitolo ci si occuperà del primo e ultimo periodo, mentre il secondo sarà oggetto del successivo.
Il primo ciclo è del 1929 e in esso la bellezza apparente della materia naturale si sfalda in chiave ironica e grottesca, fino a far diventare olfattivo il lezzo morte8. Eppure bisogna aggiungere che nelle opere del periodo considerato Scipione, pur sfaldando la materia naturale, riesce a velare un sottile quanto surreale erotismo: è il caso de Il risveglio della bionda sirena, opera nata da un racconto di un sogno della Raphael9, forse il dipinto più surrealista di Scipione. I critici e gli storici dell’arte sono concordi nel sottolinearne il fasto erotico, il tono peccaminoso, ‘’dove han gioco istinti belluini, selvatici’’10. Sembra quasi di trovarsi dinanzi ad una delle fantasiose creazioni di Max Ernst o disperdersi nei bizzarri accostamenti di Mirò.
Sensualità ed erotismo traspaiono in ogni angolo, in una genesi della bellezza simboleggiata dalla possente sirena che al centro del dipinto domina la scena. Vanesio e provocazione si leggono sul suo volto e negli oggetti che dominano la scena: il pesce, i fichi spaccati e l’ortaggio come richiamo ai genitali maschili, il melograno, simbolo classico di vita e morte, di unione degli opposti, la dicotomia mondo ferino/mondo marino, l’unione tra l’umano e l’animalesco ‘’bruciati’’ dalle fiamme che divampano sotto il classicheggiante corpo della donna. Una selvaggia unione in un caos primigenio di mondi che s’incontrano. ‘’La sirena giace, […] si pettina i lunghi capelli; accanto ha la brocca, sfiorata dalla simbolica coda. […] Il paesaggio […] ha l’ironica convenzionalità di una scenografia; ma non ci vuole molto a scoprire che la bellissima donna non ha niente a spartire con gli uomini di questa terra, anche se è disposta ad offrirsi in pasto alla umana curiosità e perversione’’11
Per quanto concerne la tecnica Scipione maneggia la materia con una controllata dose di fluidità, in accostamenti di toni scuri e accesi, caldi e in misurati contrasti chiaroscurali, tra lo sfondo immerso nell’ombra e a stento visibile e il corpo della sirena investito da una luce innaturale, che sembra non avere alcuna di provenienza.
Misterioso è il celebre dipinto de La piovra, anch’esso del ’29, con la foto di questa donna, Pierina, su di un tavolo, accanto alla quale si muovono dei serpenti o murene e la piovra che avviluppa l’immagine della ragazza, la ‘’possiede’’ col tentacolo come a volerne cingerne il collo, come per soffocarla. Emerge un ‘’gusto malefico’’, come scrive Apollonio, un gioco perverso dove le serpi sono lì a tentare l’amato, la piovra, a prendere con la forza quella donna dal volto spaurito e fragile o semplicemente l’idea di una possessione che si desidera si tramuti in carnale. Anche qui, come nella precedente opera, Scipione mette, è il caso di dire, in tavola un rapporto sessuale: lo inscena con la sottigliezza di chi non vuole scadere nell’osceno o incappare nella censura e lo vela in una simbologia arcaica e animalesca. Un gioco violento, un fuoco anche qui che sembra divampare dal mondo ondulatorio della tovaglia, accentuato da quella prima manifestazione di rosso, emblema della pittura dell’artista.
A differenza dell’opaca trasparenza che sembra avvolgere Il risveglio della bionda sirena, qui Scipione inizia ad azzardare ad un più corposo impasto della materia: ‘’il tavolo e la piuma velenosa, ha un carattere così irritato da forzare il peso, direi la materialità, degli oggetti che la compongono’’12.
Il Sinisgalli ricorda come l’opera fu dipinta in omaggio ai giovani amici e che aveva un titolo lungo come i surrealisti misero di moda: Pierina è arrivata in una grande città13, e in questa è caduta nelle spire, o meglio, nei tentacoli, delle insidie peccaminose e perfide che essa nasconde.
Il dipinto, come sopraccennato, rientra in una serie di nature morte realizzate dall’artista proprio nel ’29; tra le altre si possono citare Uccelli morti e Fichi spaccati, una graziosa, anche se inquietante, tela, che nel soggetto ‘’parla romano’’, come scrive il De Angelis e che raffigura tre fichi spaccati e disposti a semicerchio intorno ad un candelabro, al quale furtivamente s’accosta una lucertola (compare qui tra l’altro un carattere proprio delle opere ‘’romane’’ di Scipione: l’elemento verticale, propendente verso l’alto, rappresentato qui dal lume, nelle altre in genere da un obelisco).
Un’altra natura morta è Asso di spade, conosciuto anche col titolo di Fattura, in quanto si tratterebbe di una fattura per ‘’separare’’, come indicano la spada e il pugnale, le teste e le penne tagliate14.
E ancora: Natura morta con tubino, ‘’dove l’ironia si scheggia nei particolari degli oggetti che suggeriscono l’immagine nascosta di Charlot, rappresentazione allusiva, irridente al mito dei moderni ed una civiltà di macchine e contraddizioni’’15. Per Apollonio in quest’opera Scipione diede la migliore prova di sé. Scrive di essa il critico:<< La composizione non ha nulla di corsivo, d’improvviso: […] il vigore del linguaggio trasporta gli oggetti verso una fusione lirica, verso una coerenza formale che s’includono in una misura tutta pittorica. […] Questa trasparenza pittorica così condensata sul piano luminoso del tappeto olivastro, così spartita e pur così legata con quel nero fondo della maglia sul quale il bianco del pettine pone un accento acuto delicatamente ripercosso dal violetto delle bretelle, apparirà tanto più felice per il suo riflesso metafisico. Un agio di metrica pittorica assai sapiente e riuscita, morbida ed energica, potenzia l’effetto di questa natura morta, in cui nulla spegne quel segreto spirituale da cui scaturì>>16.
A differenza dei disegni in queste nature morte possiamo individuare alcune costanti: il tavolo, gli animali, le piume. Sono oggetti che si vestono di una simbologia a volte ancestrale come nel caso de La bionda sirena, in altri religiosa, come il lume dei Fichi spaccati, in altri ancora allusivi al desiderio carnale che in fondo è il comun denominatore di tutte le opere citate e che trova nel rosso vivo che le avvolge, come in un rovente magna che ondeggia in moto rotatorio intorno alla circonferenza del tavolo, la sua più chiara manifestazione.
Sono simboli legati ad un’epoca, ad un ambiente, quello della borghesia romana del primo dopoguerra. Simbolismo, Surrealismo, fantasia visionaria si fondono in un’amalgama straordinaria, in cui oggetti e colori lasciano trasparire un’inquietudine di fondo, un’apparizione fantastica e tragica, dagli accenti nuovi e sconcertanti, come la definisce Oppo17.
Scipione, nota Bertoli, ha la capacità di saper far parlare le cose, renderle partecipi delle sensazioni, dei sentimenti.
Fare delle cose dei soggetti autonomi è privilegio della pittura moderna. La natura morta, prosegue, è il soggetto che dà maggiore libertà creativa all’artista. È lui stesso che la compone e accosta le forme e i colori. È un soggetto astratto, intimamente e totalmente connesso al mondo dell’artista18.
Attraverso di essa dunque l’artista può esprimere i sentimenti, vivere un suo mondo fatto di oggetti-simbolo, di verità sublimate da forme altre ed espresse, come nel caso di Scipione, dal colore e dalla luce.
In una visione ribaltata del tavolo, di cezanniana ascendenza, Scipione ci rende partecipi spettatori della sua verità; una verità che solo lui conosce, che vuole condividere, ma al contempo cela al mondo. I suoi sembrano essere dipinti creati per essere esposti nel museo, ma visivamente e sotto il profilo della partecipazione emotiva dello spettatore sono freddi, distaccati, troppo ‘’intimi’’ per essere appieno compresi. Vivono come sospesi tra un tradizionalismo iconografico, quasi letterario, bloccato, e un’innovazione che passa attraverso la sottigliezza delle soluzioni formali adottate dall’artista.
L’ultimo ciclo vede il trapasso dal corrusco del barocco del precedente in realtà traslucida, in consapevolezza19: si stemperano i toni infuocati delle tele precedenti, come una profezia avverata, un’apocalisse ormai superata. Una nuova alba sorge su Roma, sul Colosseo, su Piazzale del Laterano, il rosso sfuma in limpido ocra, in aranci morbidi e pacati: un senso di nuova serenità si respira, dopo le atmosfere calde e infernali della stagione precedente. Il dipinto de Il Colosseo testimonia una perdita di originalità se paragonato alle tele più famose del pittore: non si distingue da una tipica veduta paesaggistica del monumento romano e difficilmente gliela si attribuirebbe; non è la Roma alla quale ci ha abituati, rossa, ardente, maledetta, occidentale: essa sembra piuttosto essere la rievocazione di un bizantinismo dai cui fondali oro staglia la poderosa struttura, un orientalismo sereno, quasi insignificante. Scipione ha dato fondo a tutta la sua passione. L’ha bruciata in soli due intensi anni di attività e forse ciò che tanto avrebbe desiderato dire lo ha mostrato nelle poche tele che ci ha lasciato.
Dal ritratto della madre a Uomini sotto l’albero ad una Natura morta ‘’tutto pare ricomporsi in un giro più pacato, più acceso che diventi il risentimento interno, la desolazione, lo sconforto. […] Il demoniaco che c’era in lui cedeva il posto ad un sentimento di limpida serenità’’20.
Maurizio Fagiolo dell’Arco parla di ‘’enigma di Scipione’’ in cui si cela tutto il suo lavoro e ogni attimo della sua vita; un enigma, però, come rileva Claudia Terenzi, che non è quello dechirichiano e metafisico di un’estraneità del tempo, una sospensione tra passato e presente. Permane in lui l’idea di sogno, di travisamento, con inserimento di simboli talora inquietanti, frutto delle sue esperienze letterarie, che danno vita a suggestioni oniriche, immagini in cui le figure si allontanano dalla realtà21 .
Un’arte anarcoide, come la definisce Longhi. uno stato allucinatorio che trasfigura, sotto il dominio delle pulsioni e delle emozioni, il reale. Lo relega in uno stato di sospensione sì, ma non tra passato e presente, per l’appunto. Ma tra la vita e la morte, il peccato e la redenzione, in un hic et nunc fuori da ogni logica temporale.
Non è solo il segno, la linea, come nei disegni, a costruire il mondo di Scipione. Nelle sue tele a dominare la materia sono chiamati la luce e il colore. Essi parlano, descrivono, testimoniano di quel viscerale rapporto tra vita e arte in Scipione. L’artista li maneggia esprimendo attraverso di essi il delirante stato che lo pervade.
Ecco perché si dice che la luce e il colore in Scipione non sono naturali. Essi non vengono adoperati in funzione meramente oggettiva o descrittiva. Non servono a rilevare aspetti concreti della realtà dipinta, ma assolvono ad una funzione altra.
Si osservi ad esempio Scena apocalittica (o La tentazione di Eva), del 1930. Nulla di naturale c’è in una simile rappresentazione. I corpi deformati, con quello al di qua del telo rosso addirittura irreale nelle sue tonalità blu. Un paesaggio, una boscaglia. Difficilmente si può riconoscere, disintegrato dal colore che in gradazioni di verdi, ocra e rossi, inghiotte i personaggi al di là del panno rosso. Li assorbe in sé. Una vera apocalisse della figuarazione in un’esplosione di colori. È questa forse l’opera più espressionista in senso nordico di Scipione. Quel vorticare di colori proprio della pittura di Munch e Van Gogh. Quei volti come maschere simboliche alla Ensor. L’utilizzo innaturale di colori di matrice fauve. La tradizione nordica viene accolta da Scipione che la rielabora a suo modo. Inserendo quegli elementi simbolici che sempre si ritrovano nelle sue opere. Le croci, il candelabro, il rosario, un recinto sacro, una zona di confine che sembra marcare una linea tra un mondo sacro e uno profano.
Un colore e una luce artificiali, come quelli che dominano il Caino e Abele (Uomini sotto l’albero), del 1932. Esso farebbe parte, a detta dell’artista, del periodo de L’Apocalisse. In questo dipinto si assiste alla definitiva deflagrazione della forma. La ritrovata linea che contorna e costruisce ora scompare. Tutt’al più essa è accennata. Demarca lievemente i corpi con un’innaturalezza pari ai toni gialli e grigio- verdi che predominano nel quadro. Come se una luce anomala le radiografasse, le sagome di Caino e Abele vengono ridotte all’essenzialità più assoluta. Scipione riesce ad attribuire ad esse una loro identità. Anonime nella totalità, esse hanno una caratterizzazione nella loro personale individualità. Solo il teschio sembra essere stato ben definito dall’artista.
Lo sfondo poi si annulla totalmente in uno sfumato paesaggio grigio frammentato da rapide linee. Come se fosse stato dipinto di getto e per bozzetto. Nel complesso la sensazione che se ne percepisce è quella di un dipinto in cui dalla base di colore siano state tirate fuori le figure. Nell’opera considerata sembra addirittura che esse sia state scalfite, come dei graffiti. Graffitismo ante litteram?
Molte altre opere potrebbero essere citate, ma queste due sono esemplificative dell’attribuzione a Scipione di pittore tonalista.
Il tonalismo è ‘’studio delle variazioni del tono dei colori sotto l’azione della luce. […] Il suo principio è nella ricerca di un armonico accordo dei colori, i quali, modulati dalla luce, definiscono la forma. […] La sua funzione è però soprattutto quella di stabilire una relazione tra le forme, cioè una fusione e una compenetrazione’’22. Adattando tale definizione alla pittura di Scipione, si può dire che essa corrisponda. Guardando ai grandi maestri del passato, l’artista si muove lungo il solco di una tradizione. Dal Bellini trova il suo culmine nella disgregazione della forma tizianesca. Anche nelle tele scipionesche c’è un tentativo, anche se mai definitivo. Abolire i contorni delle figure. Anzi nel suo caso si può sostenere che le linee di contorno vengano quasi sfumate. Stirate come per essere assorbite dal contesto, determinando ‘’una continuità di trapassi tra le […] masse cromatiche e l’atmosfera circostante’’23.
Accostamento e gradazione di colore, modulazione per effetto della luce, tonalismo e chiaroscuro, due delle più importanti conquiste della migliore arte italiana, s’incontrano con un espressionismo manierato che guardando a El Greco lo converte in un delirante sconvolgimento di forme.
‘’Figure situate tra la terra e il cielo e trapassate dalla luce, come il simbolo dell’eterna trasfigurazione, che senza fine si attua sulle forme della vita e che, senza fine, estrae da questa, forme diverse per un’altra vita. […] Immagini trasparenti, senza corpo, e tuttavia crudelmente prigioniere d’un guscio di piombo, e, […] l’illusoria mobilità dei volumi che s’accrescono con la mobilità delle ombre’’24, situate in uno spazio che ‘’varia a seconda che la luce sia fuori della pittura o dentro la pittura: con altre parole, a seconda che l’opera d’arte sia concepita come un oggetto dell’universo, rischiarato come gli altri oggetti dalla luce del giorno, o come un universo avente la sua propria luce, la sua luce interna, costruita secondo certe regole’’25. Le parole di Focillon sono da riferire ad un discorso più generale, che lui applica principalmente all’architettura romanica, ma bene si adattano anche alla pittura e in particolare all’arte di Scipione. Si vedrà nel successivo capitolo come le ricerche di effetti cromatici alterati da una luce che Scipione domina a secondo dell’idea che vuole esprimere generano quella fissità e pesantezza, un universo, come scrive lo storico francese, dominato da sue leggi, un mondo tutto romano nell’ottica scipionica. La luce inoltre, prosegue Focillon, partecipa del ciclo delle metamorfosi, da cui generano rapporti di spazio e forma: così fu in Rembrandt, che li definì proprio con la luce e per El Greco, le cui combinazioni evocano quelle degli scultori romanici, con uno spazio che si comprime in una scatola cubica popolata da figure le cui forme, nel modellarsi in virtù di tale spazio, si assottigliano e si allungano, rimangono schiacciate e deformate.
El Greco è una figura importante per capire alcuni aspetti dell’arte di Scipione, che ce ne informa in uno scritto sull’artista: << Diciamo subito che il senso ricercato dagli artisti moderni nei quadri del Greco anche se non pensatamente, è per ritrovare una spiritualità forte, vera, in senso assoluto di ogni tempo, che proprio mancava al principio del secolo. Cosa spiegabilissima, ricordando tutto: la strage positiva e materialista e razionale. Il Greco ha lavorato in Spagna al tempo della Controriforma e dell’Inquisizione.
Per noi il Greco è un visionario. Con la sua pittura sconvolge le menti, le chiese si popolano di incubi religiosi, risolleva le immagini e trasfigurandole, portandole su un piano irreale, confondendo i due elementi, dipingendo nel quadro tutto presenta e con la stessa intensità. Le sue figure sono fantasmi che si concretano con una realtà tattile terribile. […] La bellezza intangibile dei personaggi divini si sforma, si corrompe, ad ammonire le genti: per dire loro che col malcostume stanno uccidendo la bellezza divina, e il dolore sofferto per l’umanità sfigura i loro visi. E gli altri personaggi al contatto con Dio sono sbalorditi, annientati, per le immense cose ritrovate e che stanno per perdere.
Greco è bene impastato del suo tempo. È impossibile considerare in sé la pittura senza intendere le grandi tragedie del tempo e la corruzione religiosa con la Riforma, con la Controriforma e l’Inquisizione; senza intendere lo sfacelo spirituale portato da quel senso rinascimentale estetico, sensuale e pagano; infatti, partito dalla scuola italiana e veneta soprattutto, dopo aver avuto a maestri Bassano Tintoretto Veronese Tiziano, trasformatosi in Spagna, incominciando sulle orme di quei grandi, va pian piano operando la più grande rivoluzione in senso artistico che sia avvenuta e cioè sconvolge nel quadro i canoni compostivi classici e in questo senso si può ben chiamare il primo artista moderno. Toglie l’equilibrio delle masse, il ritmo compositivo, venendo così a fare cadere il senso dell’armonia, che cercava di ingraziarsi il gusto dello spettatore con una sapiente armonica disposizione dei personaggi e delle cose. Tutto viene sbalestrato, sconvolto, perché quello che importa è il contenuto, in ogni quadro, nel periodo della sua completa maturità. I personaggi sono veduti, rivelati nell’attualità umana e senza alcuno scopo di piacere ma di rivelare. E l’intensità della visione è tanto forte che per scacciare e distruggere quei beni acquisiti compositivi si ripete, e si ripete fino a che il grazioso, il cerebrale, il senso estetico spariscono’’26.
Un’ammirazione, quasi una venerazione quella di Scipione per il grande artista. Si può notare, d’altronde, come Focillon abbia visto giusto accostando la pittura del Greco a quella romanica, non solo per quanto concerne l’aspetto propriamente stilistico, ma anche per la funzione che quella pittura è chiamata a svolgere, ossia didascalica. Senza dubbio in ciò il Greco si muove appieno nel clima della Controriforma, laddove la Chiesa chiede agli artisti di tornare nuovamente ad elaborare attraverso le immagini programmi didascalici che potessero essere compresi dai fedeli; in tal senso il Caravaggio con il suo linguaggio scarno e diretto sembra aver recepito profondamente le richieste della sua committenza, salvo aver sconvolto poi quest’ultima per altri motivi.
Il Greco piace a Scipione proprio per il suo saper parlare in maniera forte: quelle trasfigurazioni dei suoi personaggi, alterati nelle forme e nell’incarnato pallido, ceruleo, lo colpiscono e lo rendono ai suoi occhi come un vate che abbia ricevuto il dono di diffondere con le sue tele lo sconcerto divino per il malcostume imperante e lo fa con forme nuove, rivoluzionarie, che nutrendosi del gusto estetico pagano e sensuale del Rinascimento ne supera i tratti molli, classici per sperimentare una legnosità dei contorni con la forza di una pittura di matrice ancora nordica (Vincenzo Foppa, Andrea Mantegna) e medievale, rivisitate attraverso il filtro della più aggiornata e sconvolgente pittura di Maniera. È quel senso di universalità del messaggio che si vuole trasmettere a colpire Scipione che in questa direzione lo emula: Bertoli non esita a definirlo, infatti, ‘’profeta’’ e il Marussi parla anche lui di profezia di Scipione che avrebbe rivelato tutta nel secondo ciclo pittorico. Come il Greco anche Scipione stabilisce un legame arte-vita anche se in una prospettiva diversa, perché se il primo assorbe e ci tramanda il clima culturale del suo tempo, Scipione opera una sua lettura meramente autobiografica: fa della sua esperienza un esempio da osservare. Un messaggio che vuole tramandare a tutti, quello di una vita lacerata per aver offeso Dio e la punizione nel giorno ultimo, quando si abbatterà sul mondo l’ira di Dio e dell’Agnello. Scipione anche si fa portavoce di una profezia, quella dell’Apocalisse, che lui vive in prima persona, che si sta per scatenare su quella Roma torbida e miscredente, pur nella cristianità dei suoi monumenti.
La più importante conquista del Greco, però, Scipione la ravvisa in un altro elemento: quello della comunicabilità dell’opera: essa deve colpire l’osservatore per il suo contenuto, non per la sua estetica; questo avevano fatto sino ad allora gli artisti, ossia produrre immagini tali che nei loro canoni classicheggianti sortissero un effetto visivo che prevalesse di fatto sul tema stesso (si pensi ad esempio alle statuarie figure michelangiolesche, o alle dispute, sorte proprio durante la Controriforma, sull’inadeguatezza della raffigurazione del volto della Madonna sensuale come quello di una Venere).
Abolire il formalismo per dar risalto al contenuto: Scipione ne fa un suo manifesto, dando vita ad un secentismo a volte eloquente, fatto di forme artificiose, un po’ teatrali e di capriccio, manifestando la sua particolare disposizione pittorica27. Anche qui par esprimersi dunque ‘’il brivido presago di un’anima, dietro un’apparenza di scherzo’’28. Aspira ad un lirismo, ma per Apollonio Scipione tende a questo senza riuscire a raggiungerlo: manca una spinta ulteriore, interrotta sempre da gesti allusivi od oggetti simbolici che rompono quella levatura sulla quale l’opera sembra inizialmente sostenersi.
Che sia proprio questo carattere illustrativo, didattico, ‘’confidenziale’’, la chiave di lettura giusta per sostenere la comunicabilità delle opere? Si è già avuto modo di rilevare come Scipione sente il bisogno di dar luogo ad una pubblica confessione: non nasconde nulla a nessuno, né i suoi tormenti, né i suoi peccati e lo fa proprio con la sua arte; con le poesie, con le tele, con i disegni, l’artista mette su una sua liturgia della quale ci rende tutti partecipi, a lui poi il compito di redimersi e redimerci. Per farlo deve trovare un suo linguaggio, un suo segno ‘’come sistema nervoso, come allarme e punto d’indagine di un comune sentimento, di una unità emotiva, liberatoria. […] Ed ogni linguaggio diviene così un punto di fuga e costruzione diversa di un complesso ventaglio di esperienze, […] cosicché fantasia e visionarietà divengono i corrispettivi della varietà, della ricchezza e complessività di ciò che Scipione chiama il reale’’29. Una ricerca di continuità, di chiarezza che trova nel segno la sua possibilità figurativa: un segno che crea, spiega, che traduce la vita reale in vita pittorica, da non intendere come ‘’ingolfamento e grumo che nella sua irrisolutezza si presenta drammatica e visionaria, ma una rappresentazione mobile, aperta, serena, e non per questo meno drammatica o intensa’’30.
Tutta questa ispirazione, questo suo modo di agire, a Scipione da dove deriva? Si è parlato a lungo di espressionismo, di Goya e El Greco. Come quest’ultimo ebbe molti maestri, così fu per Scipione. Chi sono? De Angelis scrive che frequentando Musei e Gallerie, Scipione li scopre lì– di cui si sazia sino alla contaminazione. Poi se ne dimentica, conquistando una sua libertà di espressione, bruciando le tappe con l’inquietudine di una ricerca appassionata31: e guarda ai grandi maestri della pittura italiana, da Masaccio, con la sua libertà espressiva, la capacità di creare immagini dai tratti rapidi ed essenziali, ‘’che danno un’impressione del reale assai più immediata ed evidente di qualsivoglia analitica descrizione’’32 a Caravaggio nella tensione, nel clima, nel contrasto tra luce ed ombra, a Michelangelo nella vigoria dei nudi delle statue dei suoi dipinti, alla pittura veneta nelle soluzioni tonali, ai manieristi con molta probabilità, giungendo attraverso di essi al Greco. Da Goya apprese che la caricatura è un genere ‘’tragico’’ e non grottesco e di costume (la stessa Cortigiana romana nelle sue fattezze molli e in quel volto ‘’mostruoso’’ cela il dramma di una donna e della sua vita dissoluta) e da Velàsquez a deturpare volti e corpi con velata ironia, nell’ottica di un gioco grottesco.
Scipione, allora, può definirsi antico per il suo costante volgersi al passato, a quel passato rappresentato dalla migliore tradizione italiana e spagnola, come testimonia un bozzetto per L’Apocalisse: in una scena di scompiglio e di dolore l’artista riesce a racchiudere le più grandi conquiste dell’arte italiana. Nell’ammasso di corpi nudi, disegnati come se fossero rilievi, nel dolore che li pervade, forte e quasi sicuro è il richiamo ai Pisano e ai loro pulpiti: interessanti la due figure in primo piano, un uomo e una donna che si allontanano. Li si confronti con la Cacciata di Adamo ed Eva del Masaccio; Adamo raccoglie il capo tra le mani, penitente e disperato, Eva solleva il capo in una smorfia di dolore vivo, percepibile, come mai la pittura aveva sinora offerto. Nel disegno di Scipione l’uomo compie il medesimo gesto, mentre la figura che la fiancheggia sembra andare via con passo sicuro e fiero, ma nulla osta a pensare che anche lei sia in procinto di levare il capo ed urlare. Dietro di esse si svolge una scena di martirio: una figura legata ad una colonna, un gruppo di astanti che osservano e un uomo che non vuol guardare, mentre dietro di loro un cavallo infuria e un cane in primo piano passa correndo. La scena è chiaramente ispirata alla Flagellazione di Piero della Francesca, con la figura di destra del boia nell’atto di fustigare il condannato, che nella posa sembra, tuttavia, richiamare il San Sebastiano di Antonello da Messina, nella postura longilinea e nel capo reclinato verso l’alto. La figura disperata ha le prestanza fisica di un Mosè, quello michelangiolesco, rintracciabile nel dorso molto pronunciato e nelle muscolose gambe, mentre gli animali che appaiono sulla scena rimandano senza dubbio a Leonardo.
L’apoteosi dell’arte italiana viene celebrata da Scipione in questo disegno: quanto di meglio essa ha saputo offrire, quanto di più rivoluzionario essa ha saputo generare; un omaggio ai suoi geni, a quei maestri che hanno in qualche modo saputo rompere con le tradizioni del loro tempo, avanguardisti a modo loro.
Da Antonello da Messina, ad esempio, Scipione deriva la soluzione di ritrarre a mezzo busto e a tre quarti i suoi personaggi, che, come scrive il De Angelis, sapeva bene individuare: lo si è visto a proposito delle due figure di ragazze, del ritratto della madre; si possono aggiungere ancora il ritratto della Ciociara del 1930, colta nella sua fierezza contadina, col volto severo, i grandi occhi e quella bocca che a stento sembra pronunciare un lieve sorriso, abbellita dai monili in corallo allora d’uso, emerge con i suoi toni caldi dal fondo buio, altezzosa e fiera. Non si esclude che un certo fascino potrebbe in questo campo aver esercitato anche la ritrattistica fotografica.
Diverso è La Meticcia(1929) dove i toni caldi dominano l’intero dipinto e la ragazza viene come colta in un momento di imbarazzo, sottolineato dagli occhi chiusi e dalle gote rosse; per il De Angelis in questo ritratto emerge un amore e una possessione deducibili dal libero gioco delle vesti smeraldine in contrasto con l’olivastro colorito del volto, quasi a definire ‘’in un surrealismo di marca orientale il disegno dell’intero volto delicatissimo, contemplato a sazietà e quindi ricomposto in una profondità senza rimpianti’’33. Dei ritratti femminili, prosegue lo scrittore, questo è ‘’l’unico canto di amore carnale’’, corrisposto, appagato.
Di ben altra levatura i ritratti che portano il segno della deformazione: quello di Giuseppe Ungaretti, 1931, nella prima versione in cui viene rappresentato con un ghigno quasi bestiale, o quello per gli studi per il Cardinal Decano34, col volto austero, autoritario, corrusco nelle linee che lo demarcano.
I ritratti, nota Apollonio, ci riportano ad uno Scipione più tranquillo. La sintesi realistica, sostiene, incarna un’intimità d’osservazione da cui proviene l’intenerimento dei toni. C’è una purezza d’impostazione.
Un eclettismo che gli deriva dalla propria abilità di assorbire il meglio di quel linguaggio antico e rimaneggiarlo nella continua ricerca di un proprio stile; da quel classicismo si orienta verso un manierismo ‘’filtrato, raggiunge quell’eleganza del tratto, quella purezza temeraria del segno, o quel colore ch’è luce, divisione dello spazio, e fuoco interno del paesaggio e del clima non soltanto temporale’’35 e da qui verso la conquista di quelle forme barocche rilette nella più contemporanea ottica espressionistica.
Sinisgalli annota l’estraneità di Scipione alla ‘’linea moderna’’ che ha in Cèzanne il suo punto forte, perché intende per modernità non il progresso o la tecnica, ma un più doloroso risentimento della colpa originale, di modo che nell’attività pittorica <<entrò con l’urgenza di chi ad alta voce chiede aiuto>>: in altri termini credette all’arte come ad una estasi piuttosto che ad una stasi36. Per Castelfranco, invece, Scipione è <<un espressionista che si muove lungo il filone storico delle arti, arroventando ed esasperando una figurazione d’intonazione museale. Di qui il timbro di ‘’vecchio cuoio rossastro’’, forse otticamente non potente, ma capaci di farci partecipi di un senso di realtà densa di cose e di forze, […] che non appartengono ‘’alla prosa quotidiana’’ ma stanno in connessioni eccezionali, attraverso una favola che ha penetrato una storia visiva complessa ed antica>>37.
Si concorda con Castelfranco nel ritenere l’espressionismo di Scipione ‘’antico’’, ma che egli non tenesse conto delle soluzioni raggiunte dalla migliore pittura d’avanguardia europea è forse meno accettabile come ipotesi. Ha ragione la Terenzi a ritenere che non si deve intendere l’espressionismo di Mafai e Scipione paragonabile alle esperienze europee. Nel caso di Scipione parla, infatti, di ‘’moto dell’anima’’, di una forzatura fantastica dell’immagine, di vocazione antiaccademica. L’espressionismo di Scipione consiste nella torsione di figure, nella loro forte allucinata presenza, nella loro deformazione, nell’uso non naturale della luce e del colore38.
D’altronde la Scuola Romana si contrapponeva all’espressionismo nordico, strisciante e ossessivo39, e alla Scuola di Parigi, perché è assolutamente mediterraneo!
<<L’espressionismo di Scipione, ad esempio, è caldo, ancora carico di propellente e sicuramente capace di riscattarsi dalla crisi esiziale di valori. Scipione non ha guardato soltanto alla decadenza dell’uomo e della libertà. C’è un ironico dissenso nei confronti della borghesia acquiescente, ma il suo espressionismo ha referenze illuminanti in El Greco e in Goya; e nei suoi paesaggi, si sentono le folgorazioni del Verrocchio>>40e su tali fondali d’espressionismo, rileva Bertoli, innesta una sensualità tutta mediterranea. Una carnalità invadente, esasperata nella formosità dei soggetti; una carnalità che è ricerca di verità: <<Il bisogno del possesso non esclude assolutamente la speranza dell’amore. Il piacere non è fine a se stesso. Nemmeno quando è sconcio e volgare>>41.
Tutto ciò trova sintesi in quello che viene comunemente definito dagli storici dell’arte il Barocchismo di Scipione, quello in cui quelle forme contorte si animano, infiammate in un rosso che le avvolge, in cui l’artista esprime la sua più disperata carnalità e spiritualità: il barocchismo della Roma visionaria di Scipione.