L’IMMAGINE CONTEMPORANEA, tra etica, estetica e marketing

Midnight Moment: Pipilotti Rist, Open My Glade (Flatten)
January 1, 2017 – January 31, 2017

Forse troppo complessa per la fase di gestazione in cui ancora versa e troppo articolata per essere qui trattata, nulla impedisce tuttavia di abbozzare alcuni aspetti inerenti la questione etica ed estetica dell’immagine contemporanea.

Primo passo di questa modesta trattazione è l’individuazione dei soggetti in causa: l’individuo (dogmaticamente uno e trino nella veste di consumatore-osservatore-spettatore) e, ovviamente, l’immagine.

Primo quesito: quale è il comune denominatore che lega l’individuo consumatore-osservatore-spettatore all’immagine e capace di influenzarne l’etica e l’estetica?

Due le risposte e unico il concetto: il desiderio e chi è chiamato a realizzarlo e renderne possibile il soddisfacimento, ossia il marketing.

È tutta questione di marketing e non possiamo nasconderci dietro il dito dell’artisticità, della fantasia libera e delle buone intenzioni. Money makes world goes around e noi, adulanti o riluttanti, dobbiamo inchinarci e bruciare l’incenso davanti al suo altare.

Il mercato è un dio che muove in maniera manifesta o con trame che si intersecano in intricate maglie (da lui ordite e tessute) gli orientamenti sociali, culturali e anche politici: niente è lasciato al libero arbitrio, ma tutto deve rispondere alle sue esigenze.

L’obiettivo è vendere. Per raggiungerlo l’azione primaria da intraprendere è una: pubblicizzare il prodotto.

La pubblicità è la grande chiave di volta sulla quale si compone lo spartito della ridefinizione estetica dell’immagine. Questa risponde ad un’etica che, ispirandosi alle consuetudini, alle mode, all’antropologia, ne mina di volta in volta alcuni aspetti e sulle ceneri di questo ne edifica di nuovi (una sorta di cripto-signoria non dissimile da quella medievale d’età comunale, per intenderci).

Sarebbe da chiedersi se la pubblicità sia davvero uno dei grandi mali della società, come evidenziava Paul Valéry.

Non c’è dubbio che essa eserciti una grande forza attrattiva e tale potere catalizzatore di fascinazione, discussione, miticizzazione dei fenomeni culturali le è propria in virtù del veicolo trasmittente, ovverosia il messaggio.

Quest’ultimo si compone di due elementi, uno linguistico (scritto o uditivo) e l’altro figurativo, cui corrispondono rispettivamente il carattere della sintesi e della spettacolarità.

Il messaggio deve essere sintetico: in poche battute deve entrare nel ”mezzo dell’azione”, ossia illustrare non il prodotto in tutte le sue componenti, ma in quelle che lo distinguono da altri dello stesso genere. Non deve indugiare nella descrizione lenta e pedissequa, ma scorrere alla velocità dell’immagine che lo accompagna, parlare la lingua dell’osservatore e in alcuni casi sottolineare la nazionalità dello stesso (o, nel caso di prodotti italiani, il provincialismo mediante il ricorso ad una forte inflessione dialettale).

È un modo non solo per rassicurare il cliente-osservatore della qualità del bene pubblicizzato ma anche per soddisfare in modo sadico ‘‘un desiderio frustrato per un oggetto tanto più attraente quanto inafferrabile…allegoria premonitrice dell’insoddisfazione permanente e latente che il panico su vasta scala della pubblicità contemporanea provoca nei nostri desideri sconsiderati” (Marc Fumaroli).

Si può comprendere, in tal modo, la necessità sintetica del messaggio pubblicitario e di contro il ruolo centrale dell’immagine: lo ”spettatore impaziente”, per definirlo alla Mordillat, non vuole alcuna distrazione altra che non sia l’immagine e il suono. È come se le parole, quel messaggio distruggesse l’illusione che la visione dell’oggetto gli offre. Deve avere l’oggetto tra le sue mani e scoprirlo.

Centrale è l’immagine. L’immagine pubblicitaria è cinescenica e veloce, in contraddizione col ruolo che le spetterebbe, ossia quello di lasciare all’osservatore il tempo necessario per ammirare il prodotto presentato.

Una contraddizione in linea tuttavia con lo spietato fine del marketing di rendere agognante il desiderio. Il prodotto è presentato, l’offerta pure. Sognalo, ma acquistalo e godine; il prodotto non è soddisfacente? La pubblicità successiva ne offrirà un altro più appetibile.

L’immagine pubblicitaria è soggetta alla velocità delle inquadrature e alla cinematografizzazione della scena con l’abbondanza di luci, colori, suoni in HD, che con la sua ‘‘inflazione di inquadrature simboleggia la ricchezza dell’immagine, l’abbondanza, l’opulenza visiva. Lo spettatore deve averne in abbondanza” (Mordillat).

L’attesa e l’osservazione vengono sacrificate. Lo spiegano bene sia Fumaroli che Mordillat.

In particolar modo il primo si sofferma molto sul cambiamento avvenuto al passaggio dai cartelloni ”d’artista”, ossia quelli disegnati da artisti (fenomeno tipico nell’Ottocento) alla nuova grafica pubblicitaria, fredda e meccanica ”per tutti e per nessuno, moltiplicata nello spazio pubblico”: non solo si verrebbe a perdere l’aurea artistica dell’unicità di quei manifesti che assumono connotati di vere opere d’arte (pensiamo a quelli di Toulouse Lautrec o Mucha), ma viene meno l’artigianalità. La necessità della diffusione su larga scala del prodotto per il tramite dell’immagine sancisce, in pratica, la definitiva affermazione della riproducibilità tecnica del prodotto artistico, sottomesso e scansato dalle logiche del marketing e da queste sacrificato e relegato a ruolo di supporto.

La diffusione capillare della cartellonistica nelle città, la molteplicità delle offerte, il rapido susseguirsi di messaggi ci ha abituati assai rapidamente ad osservare in maniera sommaria, rapida e soprattutto disinteressata.

Per questo l’immagine, per il breve attimo della sua esistenza, deve agguantare il passante; lo deve sedurre come una prostituta, farsi ammirare come un’esibizionista di un peep show: vedere, desiderare, ma non toccare se non prima di acquistare.

Nessuno sembra notarlo, ma è un riflesso della dimensione social che con goffaggine sfacciata ha alterato il nostro modo di fare e recepire l’informazione. Scorriamo l’home page, ci soffermiamo su un’immagine che sembra possa interessarci, leggiamo brevemente il titolo e scorriamo.

Non è la dimensione social ad adattarsi alle nostre esigenze, ma siamo noi che lentamente stiamo rendendo consuetudine i suoi schemi, le sue impostazioni, le sue regole, ad osservare la realtà attraverso lo schermo.

Le immagini hanno il predominio sulla parola. Discorsi troppo articolati, lunghi, riflessioni che richiedono attenzione vengono scansate a fronte di messaggi brevi. Si oscilla tra la noia, il disinteresse e la forsennata curiosità di procedere oltre. Ciò che segue quello su cui ci soffermiamo è uno stimolo a procedere.

Per questo le immagini hanno una portata nuova: esse comunicano ed è il motivo per cui si richiede loro di essere spettacolari e particolari.

Non è infatti la visione d’insieme quello che si ricerca (o se lo si fa non importa che vi sia ordine e logica), ma è il particolare a dover attirare ( e non importa quale).

L’immagine viene destrutturata in un vorticare di sequenze che scorrono sovrapponendosi l’una all’altra, accompagnate da messaggi brevi e da un jingle per lo più irritante, ma che caratterizza quel prodotto, lo rende riconoscibile.

La rapidità di trasmissione può apparire inidonea ad una piena presa d’atto di quello che lo spot vuole trasmettere, ma si deve considerare il fattore della ripetizione continua di quello spot, sia nell’arco di un intervallo pubblicitario, sia nell’arco dell’intera giornata.

È un bombardamento mediatico di suoni e immagini. Il risultato? <<Guardare tutto e, guardando tutto, non vede più nulla, non vedere più nulla, non capire più nulla tranne la pubblicità (immagini e messaggi)>> (Mordillat).

Dal punto di vista estetico all’immagine contemporanea viene imposta una deframmentazione non dissimile da quella di un’opera cubista, una brutalità visiva dadaista e un’artisticità dell’oggettuale dai rimandi duchampiani.

L’immagine contemporanea è figlia del consumismo e dei mass media e come tale investe le arti e persino la politica.

Nel primo caso si pensi alle mostre interattive o esperenziali, che dir si voglia: queste non mostrano l’opera d’arte in sé, ma la sua riproduzione smontata in particolari che scorrono sul video a ritmi alterni facendo perdere in tal modo non solo l’aurea artistica dell’opera ma la sua stessa percezione materiale.

Il pubblico è ammaliato dall’effetto (è tutto uno show!) ma si tratta in fondo di un’opera d’arte che ha come tema un’opera d’arte. L’illusione gioca con la mancata considerazione da parte dell’osservatore di questo aspetto, quello della virtualizzazione di un’arte che non è il riflesso dell’opera, ma la sua alterazione.

Tutto viene ridotto a prodotto e lo spettatore a cliente. La logica del capitalismo spettacolarizza ogni aspetto dell’esistenza e tramuta tutto in un sogno, in un drammatico desiderio di materialità e di accumulo, in un’impazienza esistenziale e consumistica.

Dalle immagini pubblicitarie a quelle self-made l’obiettivo è catturare. L’esempio più eclatante è la moltitudine di fotografie che tappezzano Instagram, recalcitranti tentativi di mettere in evidenza un innato spirito artistico, accompagnato dal proposito di vendere il proprio prodotto e, alle volte, il proprio corpo giocando sulla mistificazione del reale attraverso i filtri. Conquistare apprezzamenti ha un valore remunerativo di carattere morale superiore al denaro (che non manca e basterà citare il ridicolo caso degli influencer per evidenziare un disagio esistenziale non indifferente).

Anche in questo banale esempio si può comprendere il portato della nuova definizione estetica (tralasciando l’etica) in cui non è il soggetto raffigurato a dominare (in barba al vecchio motto <<fare male e in modo approssimativo>>), ma è l’effetto seducente e capzioso.

Discorso analogo per il cinema, la politica e la televisione.

Per spiegarli ho preferito riportare alcuni passaggi dell’articolo di Gérard Mordillat apparso sul numero di luglio/agosto della versione italiana de ‘‘Le Monde diplomatique”.

<<Al cinema lo spettatore contemporaneo è un uomo o una donna impaziente. L’azione deve partire dalla prima scena del film, le scene devono concatenarsi alla velocità di una mitragliatrice pesante, le inquadrature devono succedersi al ritmo del battito d’ali di un colibrì. Lo spettatore contemporaneo è un bambino viziato che piange e strepita se il suo piccolo desiderio di immagini e suoni non è immediatamente esaudito e bisogna farlo tacere ficcandogli un ciuccio in bocca o distraendolo con un sonaglino (se non due). Possiamo spingerci a dire che oggi la maggioranza dei film è prodotta sotto l’egida del ciuccio e del sonaglino, cioè del Dolby Stereo alla massima potenza e degli effetti speciali in scene computerizzate per rappresentare catastrofi nucleari, guerre intergalattiche, epidemie mortali, mostri ed eventi sovrannaturali.

Il cinema si è trasformato in una lampada che si accende e si spegne, uno specchio girevole simile a quello che Franza Mesmer usava per ipnotizzare i propri pazienti. Si tratta di riempire gli occhi allo spettatore perché non veda più nulla; di riempirgli le orecchie perché non senta più nulla. Come prevedeva Baruch Spinoza: << Più sono le cose a cui è associata un’immagine, più spesso essa diventa viva. Più sono le cose, in effetti, a cui un’immagine è associata, più numerosi sono i fattori che possono turbarla>> (Ethica). In nome dell’impazienza regna l’impressione, e l’intelligenza come l’emozione scompaiono>>.

Quello che viene richiesto, secondo Mordillat, è la sintesi, la condensazione in poche battute dei dialoghi e la velocità e numerosità delle inquadrature.

<<L’inflazione di inquadrature simboleggia la ricchezza dell’immagine, l’abbondanza, l’opulenza visiva. Lo spettatore deve averne in abbondanza per i soldi che ha speso, come i popcorn che divora durante la produzione devono essergli serviti in enormi contenitori. L’effetto è paradossale perché se, all’apparenza, questa manna caduta dallo schermo colma l’impazienza dello spettatore, essa in realtà lo tiene lontano da quello che succede , de-realizza ed edulcora ciò che vede. Così la violenza che si manifesta in numerosi film (e videogiochi) diventa un simulacro della violenza, una civetteria decorativa dove il sangue schizza, i corpi scoppiano in fuochi d’artificio senza che il dolore, la sofferenza, l’orrore rovinino l’appetito dello spettatore>>.

Memore dei fasti cruenti degli antichi giochi gladiatori, in pratica il cinema (e il mondo che lo circonda e lo comprende) serve allo spettatore come palliativo al suo disagio critico panem et circenses.

Ma, continua Mordillat, se è vero che le innovazioni tecnologiche immergono lo spettatore ”nel cuore dell’azione” è altresì vero che in tutto ciò ”egli non vede più l’azione nella quale si trova immerso. Perde qualsiasi distanza, dominato dalla sensazione che l’immagine gli procura”.

<<Trasposta sul piano politico, questa dominazione fa dello spettatore impaziente un cittadino prigioniero dell’immagine e un consumatore rimpinzato di zuccherose novità. Un cittadino che non chiede più di vedere né di comprendere (l’ideologia, i programmi), ma di essere meravigliato dall’immagine proiettata dalla politica>>.

Chi è dunque lo spettatore impaziente?

<<E’ una creazione dei pubblicitari; del desiderio mortifero di vendere. E, per vendere, bisogna far venire l’acquolina e distrarre. Il metodo è altrettanto semplice quanto l’addestramento del cane di Ivan Pavlov: si esibisce per un attimo il prodotto (che sia una superproduzione o un candidato alle elezioni), lo spettatore o il cittadino, come il cane, sbavano, poi lo si sottrae allo sguardo al momento giusto per provocare frustrazione e desiderio. Ciò che vale per qualsiasi fornitura, prodotto alimentare o casalingo vale ormai allo stesso modo per il cinema, la televisione e la politica>>.

Quanto sinora espresso è reso più comprensibile nel momento in cui lo scrittore sposta il discorso al contesto televisivo:

<<Il cruccio dei programmi televisivi è lo zapping. Questo infernale strumento che, con grande disappunto degli inserzionisti pubblicitari (e dei responsabili politici), permette di cambiare canale senza abbandonare il proprio divano. Ma, qualsiasi cosa facciano per evitarlo, il telespettatore contemporaneo -questo impaziente cronico- cambia canale in continuazione, come se non sopportasse di restare davanti alla stessa immagine, vederla, analizzarla, gioirne. Soprattutto non vuole perdere nulla di quello che succede sulle altre reti. Deve guardare tutto e, guardando tutto, non vede più nulla, non vedere più nulla, non capire più nulla tranne la pubblicità (immagini e messaggi), asse centrale e colonna vertebrale di tutte le politiche editoriali dei canali privati e pubblici>>

<<L’impazienza che sembra albergare nello spettatore contemporaneo è il segno della sua angoscia davanti alla marea montante delle guerre in tutti i continenti, al pericolo climatico, alla povertà endemica, alla morte. Bisogna che tutto vada veloce, che se ne riempia il più possibile gli occhi (a tutta lampada!), assorba più immagini e storie possibili, prima ”degli ultimi giorni dell’umanità” (Karl Kraus) […].

Per lo spettatore contemporaneo…bisogna ammazzare il tempo. Dio è morto e,oggi, come ammazzare meglio il tempo se non davanti a uno schermo di fronte a una sfilata inesorabile di immagini annunciatrici dell’apocalisse?>>

( testo tratto dall’articolo ”Lo spettatore impaziente”, di G. Mordillat, pubblicato sulla rivista francese Le Monde Diplomatique, edito in Italia nel numero 7/8, anno XXV, luglio-agosto 2018. Trad. Valerio Cuccaroni)

-Alessio Celletti

BIBLIOGRAFIA:

M. Fumaroli, Parigi-New York e ritorno-viaggio nelle arti e nelle immagini, ed. Adelphi, 2011

G. Mordillat, Lo spettatore impaziente, in Le Monde Diplomatique, edito in Italia nel numero 7/8, anno XXV, luglio-agosto 2018. Trad. Valerio Cuccaroni