D’AVANGUARDIA ED OLTRE: MILANO E L’ESPERIENZA DI NOVECENTO

MILANO: ‘’NOVECENTO’’

Milano può essere già definita nei primi anni del ‘900 la ‘’capitale economica’’ del Regno d’Italia. È infatti una città dinamica, moderna, che sembra voler e poter competere con le migliori città europee. A differenza di Roma, la quale, invece, diviene ancor di più simbolo di un passato glorioso e al contempo culla ideologica di un mito in cui quel passato si fonde con la gloria, con il sogno allora attuale dell’egemonia fascista.
Milano dunque sembra riflettere la propensione a voler superare lo status quo d’arretratezza socio-economica che dai tempi dell’Unità italiana rappresenta un problema di non facile soluzione. A proiettare il Paese verso una grande avventura, quella della modernità industrializzata vi era l’ostacolo delle tradizioni che hanno sempre avuto nella nostra storia il loro peso condizionando il progresso, la possibilità di un contesto unitario non solo geograficamente inteso.

Durante il ventennio, poi, la città non sarà immune dalle trasformazioni che coinvolgeranno tutte le città italiane. Anche il maggiore centro lombardo vedrà sorgere monumenti, statue e ornamenti celebrativi della nuova realtà.
Milano, dunque, si trasforma. La Milano nera, come qualcuno l’ha definita, resta il simbolo di un’Italia industriale e tecnologica, la facciata illusoria del regime.
Anche per quanto concerne il mondo delle arti, la città si presenta altamente dinamica.
Un vero e proprio mercato alimenta il settore artistico: si contava all’incirca una decina di luoghi deputati alle esposizioni e commercio delle opere d’arte.
Le basi commerciali e finanziarie avevano generato una fisionomia della galleria d’arte anfibia che pareva soddisfare un convulso eclettismo di mercato.
Secondo il critico Raffaello Giolli ad interessare i galleristi milanesi non era tanto l’opera in sé, ma solamente la firma. Se non altro tale commercio era facilitato dalla grande disponibilità di opere in circolazione, dovuta alla dispersione di collezioni causata e, si potrebbe aggiungere, favorita dalla crisi internazionale1.
La dimensione pubblica di questo mercato era d’altronde agevolata da un diretto intervento di sostegno alle arti (in particolar modo ai giovani artisti) da parte del regime attraverso esposizioni, contributi finanziari, premi, ecc. e con l’emanazione di una serie di leggi che regolassero il sistema espositivo mettendolo al riparo dal rischio di speculazioni. Il fine di simili iniziative era ovviamente di tipo propagandistico, come si chiarirà in seguito2.
Interventi che non soddisfacevano mercanti e critici. Questi accusavano il sistema di essere fallimentare, specie riguardo all’incapacità di affrontare la dimensione internazionale; sulle ristrette dimensioni del mercato artistico nel Paese; sulla mancanza di un gusto aggiornato nei compratori.
La situazione sembra migliorare con l’apertura, negli anni ’30, di due importanti gallerie: la Galleria Milano, schierata a difesa del Novecento italiano e in contatto con Les Italiens de Paris e la Galleria del Milione, esempio di galleria moderna in linea col modello europeo e alla cui attività espositiva(con una forte attenzione al contesto tanto italiano quanto internazionale) si accompagnava anche quella editoriale, mediante la diffusione di un bollettino orientato a giustificare gli interessi commerciali dell’impresa e ad inserirsi nel dibattito critico3.
Tra le tante gallerie milanesi c’è anche la Galleria Pesaro, dove nel 1923 esporranno per la prima volta i sette pittori del movimento denominato ”Novecento”. Si tratta di Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi, ‘’capitanati’’ dalla tenace Margherita Sarfatti.
Perché Novecento?
La sigla fu escogitata da Anselmo Bucci, il quale sostenne che espressioni come Quattrocento, Cinquecento e così via, si riferivano alla produzione artistica propriamente italiana e dunque ad uno specifico stile4.
Il termine nel corso degli anni Venti finì per essere identificativo del solo gruppo pittorico, ma nel tempo esso si espanse fino a fare raggruppare sotto questa sigla alcune tendenze architettoniche, letterarie e di ‘’stile’’, come quello svelto, dinamico caratterizzante una nuova società, giovane e spregiudicata.
Nel complesso si può dire che tale stile, o tendenza che dir si voglia, mutuava dalle avanguardie e dal razionalismo il principio della semplificazione formale, ma non rinunciava a elementi classicheggianti e all’idea di monumentalità5. Lo scopo era quello di recuperare il passato, con espresso riferimento al Rinascimento quattrocentesco, per il realismo preciso, ma al contempo non disgiungerlo dal presente: una realtà illusoria, che vivesse di quel realismo magico di cui Bontempelli si faceva promotore. ‘’La vita più quotidiana e normale vogliamo vederla come un avventuroso miracolo […] L’importante è creare oggetti, da collocare fuori di noi, ben staccati da noi’’6. Una dichiarazione d’intenti che programmaticamente sembra richiamare tanto la pittura metafisica dechirichiana, quanto le posizioni di Valori Plastici7, che in una certa misura si saldarono a quelle di Novecento, pur con le dovute differenze.
In realtà il Novecento non fu un vero e proprio movimento, data l’eterogeneità dei lavori dei pittori, ma, pur non consentendo di sviluppare un programma comune, si fondava su alcuni principi di fondo condivisi (dal naturalismo idealizzante, ad una composizione sommaria, non descrittiva, ma vigorosa nella ritrovata plastica dei volumi, atmosfere sospese8).
L’intenzione iniziale era quella di riportare Milano in prima linea come sede di movimenti artistici importanti, in contrapposizione a Roma e Firenze e dare vita ad un’arte che potesse far risaltare i caretteri assoluti dell’italianità.
La Sarfatti stessa, che sapeva di poter contare sull’appoggio del ‘’ Popolo d’Italia’’ (la rivista con la quale collaborava) per far emergere il gruppo, non aveva mai posto alcun limite o imposto alcuna linea da seguire. L’eterogeneità era apprezzata (tanto da lei quanto dall’amico Benito Mussolini), purché venisse rispettata  l’ italianità dell’opera.
Formatosi nel 1922, i primi fermenti sembrano in realtà apparire già due anni prima, quando Mario Sironi, personalità di spicco del gruppo e genio artistico del periodo, pubblicherà un manifesto dal titolo ‘’Contro tutti i ritorni in pittura’’ in cui prendeva posizione tanto contro il ritorno al passato di Valori Plastici, quanto contro le ricerche futuriste. Era necessario definire lo stile, renderne concrete le forme e crearne delle ideali sintesi.
Nel 1923 si tenne la prima mostra alla Galleria Pesaro, dove a tenere il discorso di presentazione fu lo stesso Benito Mussolini, che esordì con la celebre frase ‘’Io mi sento della stessa generazione di questi artisti’’ proseguendo nel riconoscere la modernità di Novecento9 .
Il discorso è interessante anche sotto un altro punto di vista perché in esso Mussolini dichiarerà: << In un Paese come l’Italia sarebbe deficiente un Governo che si disinteressasse dell’arte e degli artisti. Dichiaro che è lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di Stato>> ; una dichiarazione che si pone in linea con le tendenze della Sarfatti e con la successiva politica artistica intrapresa dal governo fascista, che a differenza di quanto avverrà nella Germania hitleriana o, anche se in misura meno repressiva, nella Russia staliniana, non imporrà mai una vera ideologia artistica, ma favorirà, pur con le dovute cautele, un certo eclettismo, aperto anche a tendenze ‘’d’opposizione’’.
Dopo questa prima mostra il gruppo continuerà a crescere d’importanza, tanto da essere invitato ad esporre alla Biennale di Venezia nel 1924. Assente Oppi perché escluso in quanto aveva accettato di esporre in forma personale. Ad essere esposte furono alcune delle opere più celebri del gruppo: da Lallieva di Sironi, al Meriggio di Casorati e In tram di Guidi, tanto per citarne alcune, ma tutte si presentavano con un dettato plastico tornito, a cui si accompagnavano iconografie semplici, con tematiche solenni ed elementari10.
Il catalogo della Biennale di quell’anno contiene uno scritto della Sarfatti in cui si legge: << I Sei […] portano nell’arte ognuno una visione propria ma […] tendono concordi verso alcune essenziali unità […] verso ideali sempre più chiari e definiti di concretezza e semplicità. […] Navigarono di persona il périplo e girarono il Capo delle Tempeste: aria, luce, complementarismo, poi le deformazioni e il cubismo e ora […] i valori consacrati riprendono l’imperio gerarchico, non per tradizione, per libera scoperta e riconquista>>11, parole che assumo la forza dirompente di un vero manifesto programmatico.
Dopo la Biennale la Sarfatti iniziò a pensare di espandere il suo gruppo, farlo diventare movimento nazionale. Sentendosi forte dell’appoggio del capo del governo, la critica Sarfatti era consapevole tuttavia degli ostacoli che le si paravano dinanzi, primo fra tutti la concorrenza di altri movimenti (dai vari gruppi futuristi ai diversi gruppi legati in maniera più o meno stretta al regime o i vari movimenti contrari ad un’arte fascistizzata) e la necessità di crearsi un proprio spazio oltralpe.
I suoi propositi si realizzarono solo in parte: la Prima mostra del Novecento italiano, tenutasi nel 1926 al palazzo della Permanente di Milano fu un vero successo. La linea magico-realistica si rivelò ancora una volta quella vincente e ancora una volta a farla da padrone fu Benito Mussolini con un impegnativo discorso nel quale, dopo aver ribadito, come già nel discorso del ’23, lo stretto legame tra arte e politica, definisce il Novecento e i novecentisti come ‘’coloro che non sono nati in questo secolo o nel secolo scorso […], ma coloro che seguono un determinato indirizzo artistico, e vogliono provocare una determinata selezione. I novecentisti sono artisti che non si rifiutano, non rifiutano e non debbono rifiutare alcuna esperienza: […] creatori, non rifacitori o copiatori: un ‘’momento artistico’’ […]e importante da lasciare durevole traccia nella storia dell’arte italiana di questo secolo’’12.
Riscosso il successo anche in questa mostra, la Sarfatti concepì una nuova idea: far intraprendere a quello che ormai, dal suo punto di vista, è un movimento nazionale, la sua personale ‘’marcia su Roma’’ , ossia diffondere il Novecento oltre i confini e organizzare nella capitale una serie di mostre. Se le cose andavano bene all’estero, dove il Novecento riscuoteva un suo discreto successo culminato nella celebre mostra del 1930 a Buenos Aires, in Italia invece iniziava a manifestare i primi segni di decadenza, ai quali si aggiungono le numerose critiche mosse al movimento, prima fra tutte la sua compromissione col regime.
Nonostante il successo della Seconda Mostra del Novecento italiano, tenutasi a Milano (dove la Sarfatti aveva deciso nel frattempo di riportare la sede del gruppo) nel 1929, le polemiche si riaccesero: Farinacci, per citarne uno, legato a quella tendenza che prese il nome di ‘’realismo fascista’’,  accusava i novecentisti di avanguardismo ed esterofilia; o quella mossa dai nascenti movimenti astratti o para-espressionisti, che si dimostravano spazientiti nei confronti di un linguaggio ritenuto ormai accademico13. In realtà, sottolinea R. Bossaglia, Novecento stava inaridendosi, avendo perso la carica di magico realismo e gli aspetti lirici che avevano conferito a quell’arte una qualità aristocratica14 .
Anche sul piano espositivo la situazione iniziava a complicarsi per l’emergere di nuovi enti e organizzazioni: dalle sindacali fasciste all’istituzione della Quadriennale romana nel 1931, che porterà invece in primo piano la figura di Sironi.
L’ultima grande impresa a cui partecipano gli artisti di Novecento è quella avviata a Roma verso la fine degli anni ’30 per l’E42 ,l’esposizione programmata nel 1935. Sironi, che ormai si era distaccato dal gruppo, avrebbe dovuto partecipare, ma non lo fece, mentre presente era Funi, dalle cui opere emerge l’ultimo atto della pittura legata al Novecento che tendeva ad una ‘’solarità mediterranea’’, che interpretava il mito fascista in senso igieni stico, solenne15 .
Nel 1934, il Novecento, come organizzazione ufficiale chiuse i battenti, a seguito dell’abiura di diversi artisti, che dalle pagine del milanese ‘’L’Ambrosiano’’ annunciavano la nascita di una nuova accademia. La partenza della Sarfatti per l’Argentina a seguito delle leggi razziali ne segnò il definitivo tramonto, anche se tratti dell’iconografia e dello stile novecentisti confluiranno negli anni ’50 in alcune manifestazioni artistiche legate alla committenza religiosa

1S. Bignami e P. Rusconi, Le arti e il fascismo, Italia anni Trenta, in Art dossier, Ed Giunti, Firenze, 2012, pagg. 41-42

2Ibid. pagg. 13-14

3Ibid. pagg. 44-45

4Cfr. R. Bossaglia, Sironi e il ‘’Novecento’’, in Art dossier, Ed. Giunti, Firenze, 1991, pag. 5

5Ibid. pag. 6

6M. Bontempelli, articolo tratto dalla rivista ‘’900’’, cit. in Arte del novecento (1900-1944), pag.237

7Cfr. cap. I, 1.2

8Così in Piccola storia dell’Italia artistica nel primo ‘900. Dal Futurismo all’Astrazione attraverso i realismi di novecento

9Il discorso fu riportato in un articolo apparso sul Popolo d’Italia, il 23 marzo 1923
10R. Bossaglia, Sironi e il ’’Novecento’’, pag. 11

11Brano tratto dal catalogo della Biennale di Venezia del 1924, in Sironi e il ‘’Novecento’’

12Dal discorso pronunciato da B. Mussolini all’inaugurazione della mostra di Milano del 1926 e riportato in ‘’Il Popolo d’Italia’’, 16 febbraio 1926.

13Così in R. Bossaglia, Sironi e il ‘’Novecento’’, pagg. 14-17

14Ibid. pag. 15

15Ibid. pag.20