1 marzo. Un evento, un nuovo inizio: SVELAT…@…MENTE

”Gli uomini che non guardano mai indietro,

verso i propri antenati, non saranno mai capaci di guardare avanti,

verso i posteri.”

-Edmund Burke

Non dimenticheremo la mattina del 1 marzo. Non la dimenticheremo in quanto è stato forte il flusso di emozioni dalle quali siamo stati investiti, ricche le relazioni che ne sono nate, profonde le parole che sono state pronunciate. È sorprendente come un evento, concentrato in poche ore, sia stato capace di generare tutto questo; un evento, l’inaugurazione dell’opera Svelat…@…mente dell’artista Valeria Catania e collocata permanentemente presso la sede del VII Municipio di Roma, che ha visto incontrarsi e confrontarsi identità diverse, ciascuna a testimonianza di quelle che l’opera ha voluto commemorare e celebrare. Cosa ci ha lasciato? Ci ha lasciato spunti di riflessione e spinte ad agire, nella consapevolezza, come è stato ricordato durante la cerimonia, che la terminazione dell’opera non è stata un punto di arrivo, bensì un inizio, perché, come ha scritto Castellet, ”la creazione di un’opera non finisce col suo lavoro ma prosegue nella lettura creativa”, resa possibile soltanto quando vi è partecipazione e ricezione da parte dell’osservatore. Ricezione agevolata dai discorsi dei vari intervenuti che hanno ciascuno contribuito a dare una definizione complessiva ad un’opera che, già di per sé, dialoga con l’osservatore per il tramite di quei profili che, pur se silenziosi, urlano con l’imponenza della materia di cui sono costituiti. Un incontro tra parole e immagini; un connubio potente, frutto di un progetto ragionato e fortemente voluto dal Presidente del VII Municipio, Monica Lozzi, la cui determinazione e forte sensibilità ha trovato l’appoggio di altre due donne, l’artista e Cristina Leo, psicologa e attivista per i Diritti civili e LGBTQIA e portavoce del Co.LT-Coordinamento Lazio Trans, nonché il sostegno e il contributo della comunità LGBT e di Graziano Halilovic, membro della Comunità Romanì e Presidente dell’Associazione Romà Onlus, il quale da tempo auspicava che si potesse intervenire con un contributo materiale e visivo forte, affinché le testimonianze sull’Olocausto non restassero vive solo a livello di ricordo, ma potessero trovare supporto anche attraverso altri percorsi partecipativi, tra i quali quello visivo. Per lo stesso Halilovic, d’altronde, per essere nella Storia bisogna entrare nella Storia. Per tale motivo egli si è fatto promotore da alcuni anni di un’iniziativa che vuole coinvolgere in primo luogo i giovani, di qualunque età, credo religioso e cultura, facendo loro vivere un’esperienza diretta e forte quale solo la visita in un campo di concentramento può rappresentare, per rendersi conto che tra le vittime ”non c’è stata solo la comunità Rom. Come ben sappiamo, sono state diverse le comunità deportate nei campi di concentramento. Sappiamo che la comunità Ebraica è stata quella che ha subito il dramma in maniera maggiore, ma il dramma di altre comunità come quella LGBT, Rom, disabili, Testimoni di Geova, bambini, politici, purtroppo, non emergeva. Sono delle pagine di Storia sepolte, e questo significa morire due volte. La prima volta per mano dei nazisti, la seconda per mano della Storia. Questo mi ha toccato in modo molto profondo, così ho deciso di portare ad Auschwitz ragazzi LGBT, comunità Ebraica, immigrati, ragazzi di colore, cinesi, perché ci sono altri genocidi nel mondo che vengono dimenticati. Raccontando al presidente del VII Municipio, Monica Lozzi, le esperienze vissute con questi ragazzi e trovando ascolto, ci siamo resi conto che servisse un gesto concreto, affinché di tali esperienze non restassero solo parole”. L’idea era dapprincipio quella di creare un ”Giardino della Memoria”, ma l’incontro tra Monica Lozzi e Valeria Catania ha fatto sì che si optasse per un monumento. Una scelta tanto ragionata quanto azzeccata e ciò non solo in termini di visibilità e concretezza. C’è un fattore importante di cui tener conto e che è strettamente e necessariamente funzionale ai fini della valorizzazione dell’opera: il luogo in cui essa è collocata. È stata situata, infatti, in un’area del Municipio frequentata prevalentemente da bambini; un dato da non trascurare se si pensa ad un probabile processo che potrebbe innescarsi: un bambino, spinto dalla curiosità che è insita nella sua natura, sarà portato ad interagire con l’opera partendo dalla domanda più semplice, ”cos’è?”. Chi sarà chiamato a rispondere dovrà egli stesso confrontarsi con l’opera e con il bambino, procedendo per domande e risposte, avviando un dialogo che insinuerà nel bambino concetti semplici, avvicinandolo a temi coi quali in futuro si confronterà e dei quali assumerà maggiore consapevolezza e (si spera) partecipazione. In tal modo si crea interazione. In tal modo un’opera dialoga con l’osservatore, perché in fondo ”le opere d’arte sono persone […] , in grado di parlare. Si rivolgono a noi. Dobbiamo soltanto osservare, leggere e ascoltare” (Àgnes Heller). Come si nota, non sono necessari atti eclatanti, ma bastano piccoli gesti, all’apparenza banali, ma la cui importanza è enorme se si tiene conto degli effetti, quali sono quelli di preservare e perpetrare la memoria, sensibilizzare e, soprattutto, istruire. Con Svelat…@…mente due importanti risultati sono stati ottenuti: quello di aiutare a trovare un punto d’incontro tra identità diverse per il tramite dell’opera stessa (la prima, d’altronde, in Italia ad essere dedicata a tutte le vittime dell’Olocausto) e, di conseguenza, quello di legittimare agli occhi dell’opinione pubblica il novero nella Storia a tutte quelle vittime condannate all’oblio da parte di quest’ultima, restituendo loro un’identità e, soprattutto, dignità. E a farlo siamo stati noi tutti, sia chi ha lavorato a questo progetto sia chi ha preso parte all’evento, dimostrando partecipazione e consapevolezza dell’importanza di una tale iniziativa. Noi che in quell’occasione eravamo e siamo tutt’oggi, in fin dei conti, gli eredi di seconda e terza generazione dei testimoni primi di quella tragedia, le vittime, sia sopravvissute che perite, e che, in un certo qual modo, abbiamo dimostrato di aver raccolto, nel nostro piccolo, il frutto del loro sacrificio. Per tale motivo mi sembra opportuno dire che questo evento non rappresenta tanto un nuovo inizio, quanto la prosecuzione, con una coscienza maggiore, di un percorso già avviato, proiettato a rimuovere gli sterpi che intralciano il cammino verso il raggiungimento di una società nuova, egualitaria, ove le categorizzazioni non costituiranno una discriminante, bensì una ricchezza. Sono piccoli passi, ma fondamentali. Quale strada seguire? Sono molte le strade, ma la prima attiene alla valorizzazione dell’opera, da intendersi in termini di conservazione. È un impegno che l’amministrazione si è impegnata a garantire, perché, come ha tenuto a sottolineare con fermezza Fabrizio Marrazzo, portavoce del Gay Center di Roma, l’incuria rappresenta un danno non solo al monumento in quanto tale, ma soprattutto al messaggio che esso trasmette e, nel caso specifico, lo risulterebbe perché cancellerebbe la memoria storica e civica e dunque, come scrive anche Salvatore Settis, ”distruzione del futuro”. È un dovere a cui l’amministrazione deve ottemperare, perché la trascuratezza da parte di chi deve essere una guida per chi essa rappresenta porterebbe un messaggio negativo, di irrilevanza della coscienza e della memoria storica e culturale.

V. Catania, Svelat…@…mente, 2018, Roma, particolare. La realizzazione dell’opera è a cura della DAMA SERRAMENTI di Danilo Mangeruga. Ottimizzazione progettuale e Render: Marco Serra. Fonte Immagine: FACE Magazine

È stata una mattina ricca di emozioni. Sebbene ciascuno fosse lì in rappresentanza di una determinata categoria, improvvisamente è emersa un’altra sensazione, ossia che lì, in quel luogo, dinanzi a quell’opera, c’erano solo persone, senza categorie, ma accomunati da un’unica identità, quella di esseri umani. Svelat…@…,mente ha colpito nell’obiettivo di rappresentare un monumento commemorativo e al contempo portatore di una lezione che vorrei esprimere attraverso le parole dello storico africanista Alessandro Triulzi: <<La diversità è una forma di ricchezza e non di divisione, e che per prevenire chiusure razziste e rigetti dettati dalla paura occorre favorire forme di empatia e di immedesimazione della condizione umana che uniscano e rendano unico e imprescindibile ogni essere vivente. Gli artisti sono gli unici che possono farlo>>.

Gli impegni sono stati presi. L’ignominia simboleggiata dal triangolo è stata ribaltata. L’opera c’è ed è frutto di progetto voluto, curato con l’attenzione e ”l’amore che si darebbero ad un figlio” (Valeria Catania). Le carte sono state scoperte ed ora non resta che continuare il gioco.

V. Catania, Svelat…@…mente, 2018, Roma, particolare. La realizzazione dell’opera è a cura della DAMA SERRAMENTI di Danilo Mangeruga. Ottimizzazione progettuale e render: Marco Serra. Courtesy l’artista

-Alessio Celletti

Di seguito riportiamo due brani letti durante l’evento: il primo è un testo scritto da Cristina Leo basato su fatti documentati e relativi alle atrocità commesse ai danni delle vittime omosessuali e transessuali all’interno dei lager. Il secondo è una poesia proposta da Graziano Halilovic.

Matricola 81175

Da quando arrivai nel campo di concentramento di Buchenwald mi chiamarono matricola 81175, ma una volta mi chiamavano Edith.

Nacqui a Berlino nel 1913 e come molti giovani omosessuali, lesbiche e transessuali del mio tempo trovai accoglienza e rifugio presso l’Istituto per la Ricerca Sessuale fondato dal dottor Magnus Hirschfeld.

Il 6 maggio del 1933 mentre il dottore era impegnato in una serie di conferenze negli Stati Uniti, la gioventù studentesca nazista organizzò un attacco contro l’Istituto.

Vennero saccheggiati 20.000 volumi, 5.000 immagini ed una lunga lista di nomi e di indirizzi di persone che, a diverso titolo, erano transitate presso l’Istituto.

Fra questi nomi c’era il mio:

Hans Volkenstein detta Edith, nota a livello locale per indossare abiti da donna.

Ricevetti l’ordine di presentarmi presso la stazione di polizia.

Obbedii per evitare ripercussioni sulla mia famiglia.

All’arrivo alla stazione, c’erano omosessuali e travestiti.

Venni picchiata dalla polizia nazista. Cercai di resistere, ma mi strapparono con violenza le unghie delle mani e dei piedi. Non bastò. Mi sodomizzarono con un bastone spezzato che mi causò una lesione interna e fui spedita insieme agli altri nel campo di concentramento di Buchenwald.

Appena arrivata rasarono a zero i miei lunghi capelli biondi e mi misero, al polso un bracciale giallo con una “A” al centro (“Arschficker”, sodomita), poi mi diedero un’ uniforme con un triangolo rosa.

Fummo inviati in baracche apposite e isolati dagli altri prigionieri persino durante il lavoro.

La notte dormivamo con le mani fuori dalle coperte e con la luce accesa, per evitare qualsiasi contatto fra di noi.

Eravamo disprezzati da tutti, dai nostri carcerieri, dagli altri gruppi di detenuti e dalle nostre famiglie.

Il 16 luglio venni svegliata da una secchiata di acqua gelida.

Mi portarono davanti ad un medico, mi dissero che mi avrebbero guarita, se avessi accettato di sottopormi ad un’ intervento e che in seguito mi avrebbero liberata.

Non avevo scelta. Accettai.

Dopo poche ore mi sottoposero ad un intervento di castrazione senza anestesia.

Le ferite si infettarono ed io stetti sempre peggio.

Ero debilitata nel corpo e nello spirito.

Ormai ero la metà della mia ombra.

Non mi fidavo di loro, ma continuavo a sperare che mi avrebbero liberata.

Due settimane più tardi, ci svegliarono all’alba.

Il comandante del campo annunciò un’esecuzione pubblica.

Venni trascinata a forza fuori dalla baracca.

Venni presa a calci e a pugni.

Mi spogliarono, mi posero un secchio di metallo sopra la testa, mi bastonarono ed infine mi aizzarono contro dei cani lupo che mi sbranarono fino ad uccidermi.

Registriamo il decesso del detenuto matricola 81175, morto per CAUSE ACCIDENTALI…

Mi chiamarono matricola 81175, ma una volta mi chiamavano Edith…”

(Cristina Leo).

PORRAJMOS, di Seo Cizmic

DIK I NA BISTAR

(GUARDA E NON DIMENTICARE)

Ogni notte mi addormentavo con delle melodie sconosciute che il vento trasportava oltre il filo spinato…

Uomini donne e bambini intorno ad un fuoco… ballando con la speranza di poter

ancora viaggiare.

Poi fu silenzio…

Il violino smise di suonare.

Niente più musica,niente più balli,niente più speranza.

Solo camere a gas…

Uno sguardo al cielo dal quale cade la neve…poi penso…

il 2 agosto la neve non cade…

Fumo dalle torri,

Solo lacrime di cenere.

OHI DEVLA… OHI DEVLA…

Christian Gazzillo ha raccolto alcune dichiarazioni degli intervenuti, relative alla progettazione dell’opera di Valeria Catania e dell’importanza da essa derivante per le varie categorie rappresentate:

Monica Lozzi, presidente del VII Municipio di Roma

La mia idea iniziale era quella di dare vita ad un ”Giardino della Memoria” dove ogni comunità che fosse stata colpita dalla tragedia dell’Olocausto potesse presentare con una propria opera i propri caduti. Io sono nata il 27 Gennaio, quindi sin da piccola ho sempre vissuto questa situazione come ricordo in generale. Appena sono stata eletta ho cominciato ad avere contatti sia con associazioni LGBT per il discorso che riguarda l’omo-transfobia (discutendo quindi come creare un percorso con le scuole, con i cittadini all’interno del Municipio), sia contatti con la comunità Romanì e la comunità ebraica e da lì è nata l’idea di cominciare a creare questo Giardino della Memoria partendo da queste tre comunità. Valeria Catania si è resa subito disponibile; l’ho conosciuta in uno degli eventi della settimana che è stata dedicata contro l’omo-transfobia. Quindi avevo l’artista, la materia prima per poter cominciare. Questo è un primo passo.

Ovviamente questo è un passo simbolico, bisogna lavorare nella concretezza, sulle attività quotidiane per rendere il tutto più semplice per tutti.

Graziano Halilovic, Presidente dell’associazione Romà Onlus

Noi da 10 anni portiamo i ragazzi nei luoghi della Storia del Genocidio. Qual’è la Storia?

Tanti ragazzi vedono un film, un documentario, leggono libri, ma entrare nella Storia significa entrare ad Auschwitz-Birkenau. Per me la prima volta è stata una disastrosa, emozionante e ancora adesso, ogni volta che vado e sento delle storie a riguardo, piango. Perciò avevo deciso di aiutare e dare questa opportunità anche ad altri ragazzi della comunità Romanì. Nove anni fa avevamo 10/15 ragazzi che con le nostre risorse abbiamo portato ed abbiamo vissuto una grande emozione. Poi man mano eravamo 40/50, allora mi sono detto: “Perchè solo la comunità Romanì? Qui non c’è stata solo la comunità Rom.” Come ben sappiamo, sono state diverse le comunità deportate nei campi di concentramento. Sappiamo che la comunità Ebraica è stata quella che ha subito il dramma in maniera maggiore. Ma il dramma di altre comunità come quella LGBT, Rom, disabili, Testimoni di Geova, bambini, politici purtroppo non emergeva. Erano delle pagine di Storia sepolte, e questo significa morire due volte. La prima volta per mano dei nazisti, la seconda per mano della Storia. Questo mi ha toccato in modo molto profondo, così ho deciso di portare ad Auschwitz ragazzi LGBT, della comunità Ebraica, immigrati, ragazzi di colore, cinesi, perché ci sono altri genocidi nel mondo che vengono dimenticati. Raccontando al presidente del VII Municipio Monica Lozzi le esperienze vissute con questi ragazzi e trovando ascolto, ci siamo resi conto che servisse un gesto concreto, affinché di tali esperienze non restassero solo parole. Quindi grazie al contributo anche della comunità LGBT nella persona di Valeria Catania, che ha realizzato l’opera, abbiamo potuto dare vita ad un’idea dal significato più ampio coinvolgendo anche la comunità Ebraica.

Grazie a tutti questi contributi oggi siamo qui e noi della Comunità Romanì abbiamo voluto coinvolgere tutti con un gesto dal forte significato simbolico, quello del bussare tre volte, che per noi è come bussare alla porta di qualcuno per dire “Io sono qui, noi ci siamo, sappiamo ciò che è successo. Non siete dimenticati.”.

Cristina Leo, psicologa ed attivista per i diritti LGBTQIA

<<Credo che l’importanza dell’opera di Valeria abbia un significato già di per sè chiaro.

Per me è un’opera per ricordare tutte le vittime dell’Olocausto, anche quelle tradizionalmente dimenticate, nonché un monito per le generazioni future.

E per me ha anche un significato che la rende ancora più unica, ossia il fatto che ci sia stato un progetto dell’intero evento, che è nato grazie alla collaborazione fra tre donne, delle quali due sono trans.

Quindi il messaggio contro le discriminazioni di ogni genere è molto forte, anche perché molti di noi vivono ogni giorno il proprio piccolo Olocausto>>.

Fabrizio Marrazzo, portavoce del GayCenter

<<Per quanto riguarda la rappresentatività del monumento è molto importante perché riporta alla memoria le vittime lesbiche, gay e trans durante lo sterminio nazista, che molto spesso sono vittime dimenticate (anche perché è stato molto difficile ricostruire quante di queste persone siano finite nei campi di sterminio, dovuto anche al fatto che i loro stessi parenti a non abbiano voluto ricordarli in tal quanto tali).

Per valorizzare l’opera di Valeria Catania sarebbe,secondo me, importante inserirla in un circuito come quello del Museo del Cinema a Cinecittà, quindi spostarla, in modo che gli studenti che ogni anno lo visitano possano conoscere quella che fu anche la realtà delle persone LGBT, Rom e Sinti ed Ebrei vittime dell’ Olocausto, prendendoci l’impegno di descrivere quelle che furono le esperienze delle varie comunità per creare dei testi da affiggere accanto all’opera di Valeria Catania.

D’altronde sono presenti anche altri monumenti, come ad esempio “Tutti potenziali bersagli” collocata nel quartiere romano di Piramide, che è stato uno dei primi monumenti per le vittime lesbiche, gay e trans a Roma e che focalizza l’attenzione sull’importanza della memoria, dalla quale dobbiamo ripartire per capire cosa dobbiamo fare rispetto al passato e cosa è necessario al fine di rivendicare i nostri dirittti, soprattutto perché, a causa dei pregiudizi, è venuta a mancare una “tradizione” e questo può essere dannoso dal punto di vista della memoria. Ciò è tanto più importante rivendicarlo oggi che viviamo in una società in cui riaffiorano estremismi di destra e che vedono attivamente coinvolti anche molti omosessuali. E’ quindi importante fare luce sul dramma vissuto in passato per evitare di cadere negli stessi errori e bisogna insistere su questo punto.

Questo monumento, così come la targa in ricordo di Paolo Seganti ( ucciso a Roma a Parco delle Valli) o quella in ricordo di Massimo Consoli ( fondatore del Movimento di Liberazione Omosessuale in Italia e dell’Archivio Internazionale sull’Omosessualità) dovrebbero essere inseriti in percorsi attraverso i quali raccontare il significato di questi per dare un contributo alla comunità e agli altri.

Cosa può fare la comunità? Senza dubbio intervenire in termini di manutenzione poiché, essendo opere comunque esposte alle intemperie, l’incuria potrebbe danneggiarle e ciò è un danno non solo al monumento stesso ma anche per la Memoria che rappresenta e che andrebbe a perdersi>>.

-a cura di Christian Gazzillo

 

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