”ORO RAPACE” di Yu Miri

ORO RAPACE, immagine copertina a cura di G. Palumbo, ed. Giangiacome Feltrinelli, ed.2005.
ORO RAPACE, immagine copertina a cura di G. Palumbo, ed. Giangiacome Feltrinelli, ed.2005.

‘ORO RAPACE”, DI YU MIRI. UNA STORIA DI HIKIKOMORI.

Con il termine ”hikikomori” sociologi e psicologi indicano una psicopatologia legata alla Rete, una net-addiction, ossia una vera e propria dipendenza che colpisce in particolare gli adolescenti, portandoli ad estraniarsi dal resto della società e a vivere rinchiusi in casa (perlopiù in camera), al buio, totalmente dipendenti dai videogiochi, costruendo esistenze e relazioni virtuali.

Un problema in costante aumento, che corre parallelo ad un altro fenomeno, altrettanto grave, quello, ossia, della identificazione con personaggi e contesti dei videogiochi e la trasposizione di questi nella realtà, specie nei casi di quelli basati sulla violenza, avendo ripercussioni sulla mente e sulle fantasie dei giovani che, ormai dipendenti, non riescono a discernerne il confine, finendo col giustapporre i due mondi interscambiandoli.

È quanto accade a Kuzaki Yuminaga, protagonista del romanzo ”Oro rapace” (1998) della scrittrice giapponese Yu Miri.

NELLA TOKIO DI ”ORO RAPACE”

Kazuki ha 14 anni e la sua vita è segnata da traumi, abbandoni, violenze ed emarginazioni, in una Tokio che non è l’iper-tecnologica città che tutti siamo abituati ad immaginare, ma quella dei sobborghi, di quelle periferie dominate dalla miseria, dalla malavita, da un macabro gusto per l’autocommiserazione e il desiderio profondo della distruzione.

Attorno a questo ragazzo la Miri costruire una figura psicologicamente complessa, in costante bilico tra poli opposti; tra l’essere bambino e la spinta a dover diventare adulto, tra un forte autocontrollo e una schizofrenia che si manifesta in feroci raptus di violenza.

Il malessere di Kazuki nasce dalla mancanza di punti stabili di riferimento, ma soprattutto dall’essere e dall’essersi circondato di singole personalità votate all’alienazione, all’arrivismo, per le quali il denaro e la droga sono gli unici appigli per affrontare un’esistenza che li vede segnati come falliti.

Kazuki riesce a destreggiarsi con abilità in questo mondo, il suo mondo. Appare come un protagonista fuori campo, almeno sino ad un punto centrale della vicenda.

È un’ombra che si muove agilmente nelle sale giochi, nelle strade battute da delinquenti e prostitute, nelle bettole. Agli occhi di chi lo circonda è una persona debole e influenzabile, eppure ha una razionalità calcolatrice che lo salva in ogni situazione, lo rende scaltro e al contempo artefice degli eventi.

Una vittima carnefice, per la quale l’esistenza vale nella misura in cui debba assolvere ad una missione e la sua è una e ha il nome di Koki e Kyoko, ossia l’unica famiglia che ha (o meglio, che vorrebbe fosse tale).

È uno spettatore partecipe, ma vive gli eventi con distacco emotivo, lasciando che tutto scorra secondo una logica prestabilita.

È circondato da persone mute e, come gli dirà la sorella Miho, laddove finiscono le parole rimane solo violenza.

La violenza che muove i fili della trama di questo romanzo è fisica, ma ad essa ne sottende una più subdola, generata dall’intricarsi delle maglie della società che si regge su due principi: l’accettazione comune delle idee e il tornaconto personale.

”Sono proprio i bambini ad essere estremamente sensibili alle idee comunemente accettate dalla società e al tornaconto personale, ma gli adulti non se ne rendono conto. E pensare che tanti crimini commessi dai bambini dovrebbero aver aperto gli occhi agli adulti…gli adulti amano le situazioni fuori dal comune e si sorprendono di fronte a esseri umani legati da rapporti che non sono basati su idee comunemente accettate da tutti o sul tornaconto personale…in realtà non si sforzano di capire che le idee comunemente accettate da tutti stanno perdendo di valore e il semplice tornaconto personale sta diventando qualcosa di più complicato”.

Tutto ruota su questi due concetti, che si strutturano in un progetto molto preciso, tenebrosamente ludico.

Kazuki ha i suoi schemi che sembrano speculari ad una storia da videogioco: c’è una missione, un obiettivo, ma per raggiungerlo è necessario affrontare molti ostacoli, eliminare molti nemici.

L’antagonista è il padre: Kazuki concepisce di essere più forte delle umiliazioni e della violenza dell’uomo nell’istante in cui sovverte i suoi ordini, riesce ad appropriarsi delle sue cose, in particolare di una delle sue spade, un’arma ”capace di irradiare di forza e bellezza il vuoto profondo di un corpo, lo purifica e lo fa tornare al nulla iniziale”.

La purificazione è liberazione per Kazuki e pena da scontare per il padre. Il sacrificio di quest’ultimo è l’atto stesso che segna il passaggio all’età adulta per il ragazzo, che, nel disperato tentativo di annientare quel male che soffoca e distrugge esistenze, vuole farsi giustiziere, non rendendosi conto che in realtà in niente si distingue dalla sua vittima, nei modi violenti e nella fame disperata di ”oro”.

È un bambino o un adulto, allora, Kazuki?

L’ALIENAZIONE GIOVANILE OLTRE ”ORO RAPACE”

Lui dice di non essere né l’uno né l’altro perché ha solamente 14 anni.

In questa sua breve ed incisiva descrizione, la Miri ha raccolto l’essenza del romanzo e, inconsciamente, lo proietta sino ai nostri giorni.

Pur nella fantasiosa è maniacale storia, la psicologia di questo ragazzo è quanto di più terribilmente contemporaneo possa esistere.

Il senso di dispersione, il disperato tentativo di essere forti avvicinandosi a persone forti, sono un riflesso di una debolezza che colpisce la maggior parte degli adolescenti, che si crogiolano nel desiderio di essere adulti godendo del loro status di bambini.

D’altronde ci sono giovani che si sentono già adulti e ‘‘agli occhi di ragazzini così, i genitori, gli insegnanti e tutti gli adulti appaiono stupidi e certamente non più maturi di loro. Il mondo è pieno di adulti infantili […]. Non è strano che tanti minorenni si considerino adulti. Vogliono distruggere il mondo… e non è strano che sia così”.

Agli occhi di Kazuki, ad esempio, gli adulti hanno l’idea comunemente accettata da tutti che bisogna agire per il proprio tornaconto.

Per raggiungere questo scopo è necessaria una selezione naturale basata sulla legge sociale del più forte e tale è solo chi sa comandare, chi sa mettere le mani sull’oro, il vero dio e tessitore delle maglie della società.

Kazuki è un quattordicenne, come molti altri; la straordinarietà di questo romanzo risiede nel fatto di essere stato scritto un ventennio fa, quando ancora non si era condizionati dalla realtà mass mediatica, in cui il confine tra reale e virtuale era ben marcato.

Tuttavia, nelle parole di Miho risiede un fondo di verità: la scomparsa delle parole.

La società contemporanea è dominata dalle immagini e i loro contenuti hanno assunto una posizione di predominio tale da non porsi più problemi etici, sconfinando, in virtù della loro forza attrattiva, in contenuti aperti ad ogni forma di soggezione e manipolazione intellettuale che dovrebbe stimolare un dialogo, ma che finisce col porsi come specchio di una realtà che, per il fatto di essere concepita come fittizia, è divenuta terreno di rivendicazioni di una libertà di espressione sin troppo abusata.

Manca una cultura di base, come è anche per Kazuki.

Mancano modelli capaci di contrapporsi alle idee comunemente accettate; la violenza si impone come risposta all’incapacità comunicativa, avvallata dall’impunibilità delle azioni commesse e dal proliferarsi di modelli comportamentali che agiscono in virtù del loro potere e visibilità.

Se possono agire così loro che sono ”adulti”, perché non dovrebbe poterlo fare anche un comune mortale? Il problema è uno: l’esistenza viene presa come un gioco ed è necessario conoscerne le regole. Non ci sarebbero problemi se non fosse che, chi detta tali regole, legittima qualsivoglia crimine, che sia verbale o fisico.

‘Oro rapace” è semplicemente un romanzo e le vicende di Kazuki appaiono sin troppo surreali ed avulse da una loro applicazione nella realtà e se pure così fosse è un mondo altro, un’altra cultura, che appartiene a qualcun altro. C’è questa certezza? Kazuki è un adolescente come tanti altri; Kazuki non s’è fatto scrupolo ad ammazzare suo padre in nome dell’oro rapace, in forza di un senso di giustizia primitivo, per disgusto o puro piacere. Per ripicca o necessità di attenzioni.

La cronaca non ci ha forse aperto gli occhi anche su queste realtà? La società, come l’ha definita Zygmut Bauman, è liquida, basata sull’instabilità relazionale e individuale, soggetta a rapidi mutamenti pilotati abilmente dalla magnetica diffusione del messaggio virale strutturato in algoritmi. In una società così fluida, senza riferimenti stabili, la mente come può resistere?

-Alessio Celletti

Fonti Bibliografiche:

-Yu Miri, Oro rapace, ed. Giangiacomo Feltrinelli, ed.2005, Milano

-G. Marotta, Criminologia, storie, teorie e metodi, CEDAM, 2015