”MEDEAS” di Andrea Pallaoro: storie di alienati

Frame del film Medeas

”Medeas”, film del 2013 diretto dal giovane Andrea Pallaoro (n. 1982), è un intenso dramma, fondato su una liricità struggente e al limite della sopportazione sensoriale, nel quale a farla da padrona sono un costante silenzio e un’espressività che tenta di scavare e far emergere la psicologia dei personaggi, scarnificati e sacrificati nel loro ruolo di attori e chiamati a tramutarsi nel riflesso dell’osservatore, che, volente o meno, è spinto ad una partecipazione emotiva, a tratti portata alla totale identificazione.

Quella di Medea è da sempre una figura contrastante; un misto di fascinazione e repulsione, di misticismo e regalità, di delusione e amore perverso, che la spinge, nell’atto finale, al sacrificio del suo stesso sangue in nome di una vendetta che affonda le sue radici nell’orgoglio ferito, nel rammarico di un tradimento verso la sua famiglia, subito da chi è stato causa ed effetto, la ragione della sua forza e della sua distruzione. Un personaggio letto ed interpretato nel corso dei secoli, da quando Euripide ne tratteggiò la grandiosa figura sino ad Apollonio Rodio che, nelle sue Argonautiche, è riuscito ad infonderle una caratterizzazione psicologica profonda, vittima dei suoi tormenti; dalla donna furiosa di Seneca sino alla barbara e fattucchiera Medea pasoliniana.

Passaggi che sembrano confluire nell’opera di Pallaoro, il quale riprende e riadatta i diversi contesti e le varie sfumature caratteriali e riscrive la storia in modo nuovo, complesso, che porta a chiedersi se egli abbia voluto creare una nuova figura o se, piuttosto, i protagonisti siano il frutto disseminato dell’eredità lasciata dall’anti-eroina.

Il contributo pasoliniano, d’altronde, è molto forte

    • nella descrizione visiva del paesaggio (un desolato scenario fatto di immense distese di campi, di rocce, di terra inaridita dalla siccità. Una Corchide che è quanto di più tribale e primitivo si possa immaginare, contaminata dalla presenza moderna dei tralicci dell’elettricità, dal fumo delle macchine; in sostanza, dalla presenza dell’Uomo). Il fine, a detta del regista, è quello di scavare nelle immagini per fare emergere una più profonda intimità con il soggetto rappresentato.

    • Nel tempo, scisso tra quello dell’azione e il tempo del racconto: la linearità della storia viene, infatti, ridotta a una serie di fotogrammi all’interno dei quali si genera a sua volta una storia che si concentra in precisi momenti, i quali anziché ”focalizzarsi su una traccia logica di come si svolgono i fatti o su una narrazione causa-effetto, si sviluppa lungo un’osservazione fisica ed emotiva del personaggio. In questa scelta c’è l’elaborazione di un linguaggio che riesca a trasmettere allo spettatore una situazione ricca di quegli stimoli sensoriali – visivi, acustici, tattili e olfattivi- che le appartengono nella realtà, perché ritengo siano questi gli elementi che possano portare a un percorso più intimo dello spettatore” (A. Pallaoro). L’intento, come dichiarato dal regista, è quello di ”fotografare il pensiero del personaggio, anziché raccontare quello che se ne può dire…(sicché), lasciando libero (lo spettatore) di sviluppare considerazioni personali, c’è la possibilità di raggiungere profondità maggiori”. Il tempo del racconto è, invece, regolato dalla ritualità. Una ritualità sacra e profana. La prima è inerente alla preghiera, a riti propiziatori, all’aruspicina. La seconda si traduce in termini di consuetudine, nella rigidità di schemi di vita che sembrano essere consolidati e non accettano mutamenti. Tutto scorre sotto il ferreo controllo di Ennis (il capofamiglia, interpretato da Brian F. O’Byrne), uomo rude, ma al contempo orgoglioso del suo ”regno”, della sua famiglia, del suo ruolo di padre e di marito.

    • Nel linguaggio. I dialoghi sono ridotti all’essenziale. Poche battute, ma incisive, che spesso assumono le forme di brevi monologhi. ”Il linguaggio cerca di essere il più essenziale possibile, privo di ridondanze, ma ricco di ripetizioni che hanno un valore concettuale: lo definisco un cinema minimalista perché punta direttamente all’essenziale, alla sottrazione di tutto ciò che non è necessario”. Un linguaggio che vuole ”riflettere il dialogo costante tra il personaggio e il mondo che lo circonda, prestando molta attenzione agli interni abitati dai protagonisti, allo spazio esterno e al concetto stesso di spazialità, che è parte attiva nel costruire il dialogo tra interno-psicologico ed esterno-fisico”.

Frame del film Medeas

La costruzione psicologica dei personaggi, invece, passa attraverso il filtro della tradizione, arricchita dall’incedere dei mali che attanagliano la modernità, quali l’alienazione, il senso di disagio, lo smarrimento che culmina nel nomadismo vittima del trionfo dell’inconscio sull’Io. E questa è la storia di una famiglia di alienati: alienati nei confronti del mondo, dell’uno nei confronti dell’altro e,soprattutto, nei confronti di loro stessi. Eppure non lo si direbbe guardandoli scherzare durante una serena giornata al lago, nel corso della quale scattano una fotografia che immortala una famiglia serena. Ma quello che può nascondersi dietro quei sorrisi può essere diverso dalla realtà; l’essere è ben diverso dall’apparire. Non lo si direbbe vedendoli riuniti a cena, in un rispettoso silenzio che impone anche di pregare ciascuno per sé. Un senso profondo di inquietudine, tuttavia, si cela dietro questo silenzio, rotto dagli scherzi e dal sorriso di Jacob (Maxim Knight), uno dei figli di Ennis, la figura, forse, più affascinante della pellicola. Jacob sembra infrangere gli schemi di rigidità e severità. Nell’aspetto fisico ha un candore e un’innocenza quasi angelica, androgina nei suoi tratti, soave e spensierata nei suoi comportamenti. Un’innocenza infantile che viene frantumata dalla scoperta di un terribile segreto di cui deve farsi carico, che incrina il rapporto con la madre e mette in discussione le sue certezze, le stesse fondate su quel rigore consuetudinario sul quale Ennis ha impostato il suo modo di vivere e condurre la sua vita e quella della sua famiglia.

Frame del film Medeas

Vedere sua madre tradire il padre; vedere un altro uomo giocare con il fratello minore e l’atto stesso dell’abbandono da parte di Christina (Catalina Sandino Moreno), lo spingono ad un rinnegamento del suo stesso sangue e lo costringono ad interrogativi esistenziali, alla resa dinanzi all’ineluttabilità degli eventi. Nella scena in cui prende tra le braccia quel fratello, ormai più un estraneo che un congiunto, il pathos aumenta in maniera vertiginosa: cosa vuole fare Jacob? Lo guarda con la ferocia e lo stringe con la saldezza di chi è pronto a sacrificare la vittima. Il sacrificio di Isacco e Ifigenia, che nessun dio ha imposto o è pronto a fermare. Solo una pietà velata e la condivisione dell’innocenza rubata, fermano la mano omicida di Jacob. È ormai ridotto all’ombra di se stesso. La visione di un corvo morto sul ciglio della strada percorsa insieme ai fratelli è un segno premonitore, la rivelazione del percorso intrapreso, la cui meta è segnata. Alla fine anche Jacob, il candido e solare fanciullo, viene trascinato nelle spire del vortice alienante, fatto di silenzi e verità nascoste, dei suoi familiari. La collera si impossessa di lui, come pure del fratello maggiore, Micah (Ian Nelson), il primogenito, il più alienato della famiglia. Micah vive un malessere profondo che lo porta a chiudersi nel suo silenzio, a mostrare freddezza verso qualsiasi approccio umano, anche nei confronti dell’altro sesso.

Frame del film Medeas

La sua sembra essere una consapevolezza di un destino già stabilito dal suo ruolo di figlio primogenito e lo soffoca lentamente, in un confluire di rabbia che esplode quando suo padre si scaglia violentemente contro sua madre.

Lo sguardo che allora padre e figlio si scambiano è di una sfida aperta, quella di Edipo contro la supremazia paterna in difesa della madre. È un gesto che infligge a Ennis una seconda sconfitta; è il segnale della disgregazione di quello che riteneva essere un tessuto solido. Micah ha una visione distorta dei sentimenti, malata e non pura. Non pura come l’amore che prova Ruth (Mary Mouser), sua sorella. Ruth è una ragazza alle prese con il primo amore e con l’accettazione del suo fiorire da fanciulla a donna, segnata dalla scoperta del suo corpo e della sua sensualità. L’amore che vive Ruth è quello di un’adolescente che sa che la sincerità dei suoi sentimenti lo può esprimere attraverso il linguaggio del suo corpo. Consapevolezza che non sfugge neanche al padre, il quale sembra volerla relegare al suo ruolo, quello di figlia, ma al contempo di donna-schiava. Vorrebbe forse proteggerla, ma la sacrifica. Si sente come una bambola Ruth. Quel ripetere dei versi ”come fossi una bambola… mi butti giù” è il grido soffocato di un odio, di un rifiuto, quello dell’ordine imposto, troppo vecchio e in disaccordo con lo scorrere di un tempo che Ennis non accetta e non comprende.

frame del film Medeas

Gli amori si vivono segretamente: Ruth e Christina cedono alla passione in maniera galeotta, sotto gli occhi distratti e offuscati di Ennis; ma se la prima vive la sua storia con l’innocenza e quella sensazione di trasgressione che si veste del fascino tutto adolescenziale dell’amore, quello di Christina si macchia di una colpa maggiore, quella del tradimento. Christina è sorda: un handicap che non la limita e che lei sfrutta come arma per isolarsi dal mondo che la circonda e che, con la sua relazione clandestina, tenta disperatamente di fuggire. Ma la sua non è solo una storia di sesso. Christina sembra profondamente innamorata dell’amante, che incontra di nascosto, sacrificando i figli, lasciandoli ad attendere fuori dalla stanza in cui incontra l’uomo. Christina in fondo nutre un amore sincero verso di loro, soprattutto per quelli più piccoli, mentre nei confronti degli altri manifesta un distacco, quasi ne vedesse il riflesso di suo marito. Riesce a nascondere la sua doppia vita, almeno a Ennis e agli altri, ma Jacob sa e lei non può più nascondersi quando scopre di essere nuovamente incinta. La decisione di dirlo al marito è non priva di tormenti e la tensione raggiunge l’apice in una notte, una notte non dissimile da quella del ”tormento di Medea”, quando l’eroina deve decidere se cedere all’amore per Giasone o sacrificarlo. ”Quale la mia sventura! Meglio, meglio sarebbe in questa notte stessa, in questa stanza, lasciare la vita per un destino nascosto, sfuggendo a tutti i rimproveri, prima d’avere compiuto colpe innominabili” dice la Medea de Le Argonautiche e che sembra rispecchiare il pensiero di Christina nell’istante in cui decide di rivelare la gravidanza a Ennis. Quest’ultimo si rende immediatamente conto che quel figlio non può essere suo. È l’atto che sveglia la coscienza di Ennis. L’atto che finalmente gli apre gli occhi. Tenterà ancora una volta di riconquistare la moglie provando, anche con la forza, di avere un rapporto con lei, ma al rifiuto di quest’ultima si arrende. Si accascia al suolo e nel silenzio che gli è proprio ammette la sconfitta. L’errore di Ennis è stato quello di sottovalutare una fedeltà della sua famiglia nei suoi confronti dettata da un controllo che vuole essere protettivo, ma si è di fatto tramutato in un dominio. Ennis non è stato in grado di distinguere tra lavoro e sentimenti, illudendosi di poter soggiogare la moglie e i figli come fa con le sue mucche e accudirli e proteggerli inquadrandoli nei loro recinti. Ennis non accetta che il tempo scorra e porti con sé cambiamenti. Non riesce a scardinarsi da una dimensione atavica e illusoriamente dominata da una visione utopica di una perfezione monotona che è rassicurante. Ma è illusione. L’utopia si tramuta nella distopica prospettiva di una fine in solitudine, forse inerme come il padre, nell’ammissione di un fallimento e di un tradimento perpetrato ai danni della sua prole.

Frame del film Medeas

Filippo M. Pontani, nell’introduzione alla Medea di Euripide, descrive la donna come una ”creatura ferina (Ennis); ha una durezza rocciosa (Micah), ha l’inflessibilità del ferro, l’ineluttabile sordità di un flutto marino (Christina). Vive d’un odio che investe l’oggetto del tradito amore (Ruth) e i suoi nuovi parentadi e la vita stessa, trova accenti di rabbioso sarcasmo (Jacob)”. Una serie di definizioni che sono ben idonee a descrivere aspetti della psicologia dei singoli protagonisti e che hanno un comun denominatore in Ennis. Lo scontro principale si consuma tra lui e Christina, ma i comportamenti dei figli, pur se apparentemente marginali, assumo la forza titanica di un maremoto capace di disgregare la stabilità e la falsa serenità familiare. Ennis è stato ferito nell’orgoglio e nel suo ruolo. La sua virilità e autorevolezza messe in crisi. La sua dignità e ”il timore di una derisione nemica” generano una ferita e ”proprio quella elementare ferita nell’elementare dedizione alla (donna) rovescia il volto dell’amore in odio, e dal fondo dell’anima barbara si sprigiona la violenza della belva e balena nell’occhio inselvatichito, di toro. Non è più gelosia. Nella vendetta della belva tradita assomma l’essere intero in una tensione folle, che brucia la stessa (paternità). Lucida ossessione monoideistica, che chiude l’adito a ogni senso di dismisura, e per ferire ignora le proprie assurde ferite” (Pontani). A Ennis non resta che svestire gli abiti dell’uomo selvaggio e tornare nella società. Prende i suoi figli e, dopo averli fatti benedire dal padre, si avvia verso il suo destino. Christina deve pagare, tutti devono pagare, lui compreso. Finalmente torna a piovere. Christina si sveglia e avverte che quella pioggia reca con sé un infausto presagio e quel silenzio, che pure l’aveva tanto cullata, si tramuta in un peana assordante. Esce e anche lei va incontro al suo destino, raminga randagia, vittima e carnefice delle sue colpe, vedova e madre senza figli. ”Tu lo senti in che modo respint(a) son io? E quest’empi(o), lo vedi che cosa mi fa, il leone omicida dei figli, Zeus? Ma, per quello che posso…li piango, invocando gli dèi perché il cielo mi sia testimone che tu, dopo aver ammazzato i miei figli, non vuoi ch’io li tocchi e una tomba ai cadaveri dia. Oh, così non l’avessi mai creati, per vederli da te trucidati!” (Euripide).

frame del film Medeas

Alla fine tutti, forse, hanno un qualcosa di Medea, determinando coi loro comportamenti, i loro gesti e, sopratutto i loro silenzi, gli eventi sicché ”la consanguinea macchia contamina l’uomo; e s’avventano sopra i colpevoli pari dolori, che da Dio procedono”.

Medeas” è stato presentato alla 70a edizione del Festival di Venezia nella sezione “Orizzonti”. Pallaoro ha vinto il Marrakech Film Festival come miglior regista con il suo film “Medea” il Trento Film Festival. Questo film nel 2013 ha vinto anche il premio New Voices/New Vision Award all’International Palm Spring Festival. Chayse Irvin ha vinto il premio per il miglior debutto cinematografico per Medea a Camerimage. “Medea” è stato il debutto alla regia in un lungometraggio per Pallaoro (Wikipedia)

-A. Celletti

FONTE IMMAGINI: WEB

FONTI BIOGRAFICHE

-G. Guidorizzi, Il mondo letterario greco, vol. 3, ed. Einaudi, Milano, 2006

-F. M. Pontani, Euripide, Tutte le tragedie, ed. Newton, Roma 2006

-Le citazioni di A. Pallaoro sono tratte dall’intervista rilasciata a S. Conta, Andrea Pallaoro, il sottile equilibrio del pathos, in Flash Art n. 336, dicembre 2017-gennaio2018