MATTEO FRATARCANGELI: il nuovo fronte della performance

La performance rappresenta ancora ai nostri tempi una manifestazione artistica capace di generare nell’osservatore-partecipante stati d’animo contrastanti, oscillanti tra fascinazione e repulsione, istinto e razionalità causati dal suo carattere irruento, estremo, psicologicamente distruttivo e al contempo catartico.

Matteo Fratarcangeli appartiene a quella generazione che ha contribuito a rivisitare il genere, sottraendo l’aurea di primitivo tribalismo e facendone riemergere quella sacralità rituale di una imprescindibile connessione emozionale con il pubblico.

Ciò che permane, tuttavia, è la percezione dell’atto perfomativo come ”tragedia sociale vissuta in tempo reale” (J.J. Lebel, Happening e dissidenza, in Le Tribù dell’arte, ed. Skira, 2001), evento libidico che nutre l’avido pubblico di visioni e che si consuma nella riduzione, spinta sino all’abolizione, della distanza tra pubblico e attore, nella scomparsa di ruoli, nello sfondamento della barriera che separa la realtà dal fittizio.

Il pubblico è parte attiva di questo cerimoniale di transustanziazione; è il soggetto altro della metempsicosi del dramma dell’artista.

Sebbene regga ancora l’idea di performance come ”arena”, è altresì da rilevare che lo scontro al suo interno tra gladiatori (gli artisti) e bestie (il pubblico) si sia spostato dal piano fisico a quello emotivo: l’azione dell’artista è l’arma che deve incidere l’emotività del partecipante.

Perché tutto ciò avvenga, l’artista, per citare Artaud, deve offrirsi come capro espiatorio al suo pubblico; Fratarcangeli è consapevole di questo, come lo è del fatto che l’artista a sua volta deve individuarne uno e questi non può che essere in primo luogo la sua stessa persona.

È forse seguendo questa direzione che è possibile interpretare e comprendere la prima performance realizzata dall’artista, ”Ascolto”: 31 minuti in totale silenzio, immerso in una sala di teatro (il ”V. Gassman” di Ripi -Fr). Un’azione nata dall’urgenza di abbandonarsi al silenzio e ai suoi rumori, introiettarsi, percepirsi nel tempo e nello spazio.

Un dialogo col suo corpo nell’ambiente, analogamente a quanto avverrà con ‘‘Io e Io in una stanza”, un testo scritto in cui l’artista immagina di dialogare con il suo alter ego (ciò che vorrebbe essere) e di porre a questi una di interrogativi. << È l’Io che desidero essere ma che mai sarà. Desiderare qualcosa significa elevarsi verso qualcosa che ognuno di noi non ha. Se l’avessimo, ricadremmo nel bisogno. Nel bisogno non c’è confine; esso è qualcosa di materiale che abbellisce la nostra esistenza. Nel desiderio c’è una distanza e richiede un’elevazione per colmarla. Quando si arriva al desiderio, finisce il gioco e la vita. Ma cosa si desidera? Semplicemente tenere a bada le nostre ossessioni generatrici di ansia, la quale – a sua volta – crea desideri. Ognuno di noi ha le sue ossessioni, basta ascoltarle>>.

Conoscersi per conoscere, per entrare in contatto con l’altro.

Tutto questo implica per Fratarcangeli porre il Tempo come campo privilegiato della sua ricerca: è l’attualità che deve essere indagata per capire come questa vada trasformandosi e vada mutando il pensiero, le abitudini, l’individuo in quanto essere ed esserci.

Da questi presupposti nascono ‘‘La paura dell’essere’ e ‘Uno sguardo contemporaneo”.

Nella prima Fratarcangeli crea un habitat per società di oggi sempre più immersa in bisogni materiali e distante dalla realtà.

Seduto accanto ad un telefono lo spettatore deve, tuttavia, rivolgere lo sguardo verso il palcoscenico, simboleggiante il reale, zona di frontiera al di là del virtuale, dell’individuo dalla società.

<<Lo spettatore vivrà il senso dell’esserci, non la paura dell’esserci>> creando in tal modo <<un viaggio verso i desideri e non verso i bisogni materiali>>.

A questa dimensione spaziale se ne aggiungerà una temporale, mediante la messa in atto di un’altra performance, ”Ascolto”: se la prima serve a ”mostrare il fatto”, la seconda, invece, è necessaria per ”penetrare nel fatto”.

La seconda performance è una commedia dai connotati surreali in cui la protagonista è la realtà distorta dallo sguardo ingannevole e illusorio del virtuale.

È evidente come in questi casi lo scopo della performance sia quello di mettere l’individuo a confronto con le sue debolezze attraverso la creazione di un immaginario in cui vengono fusi parole, suoni e che coinvolge in toto il corpo come mezzo e come protagonista.

Se, tuttavia, per Fratarcangeli è il pubblico che ”deve entrare in simbiosi con la performance. È lui che viene, e quindi ha il dovere di concentrarsi affinché riesca a capire la performance. Nessuno lo ha invitato”, si deve anche ammettere che ci deve essere anche la capacità da parte dell’artista di mettere lo spettatore nella condizione di avvicinarsi, di lasciarsi coinvolgere.

Per questo l’artista deve non solo osservare, ma vivere la società, studiarne gli individui e i loro comportamenti, re-interpretarli nei suoi aspetti cruciali.

Fratarcangeli lo ha fatto in maniera curiosa e affascinante con ‘‘Il viaggio‘ (2016): per 33 giorni, ”pedalando verso sud”, l’artista ha raggiunto alcuni paesi, nei quali non solo è venuto a contatto diretto con gli abitanti, ma li ha deliziati con la lettura di un canto estratto dal Paradiso di Dante Alighieri. Un’esperienza che l’artista ricorda così: << È stata una performance che mi ha sfiancato, ha dissipato molta energia non positiva. Emozionante, coinvolgente, imprevedibile. Con me ho portato Dante con la sua Divina Commedia. Trentatré giorni – come trentatré canti del Paradiso – dove Dante si eleva verso il suo desiderio ultimo: la visione della luce di Dio. Ho raccontato e fatto vivere il viaggio come un’elevazione verso desideri e non verso i bisogni>>.

Sono questi solo alcuni esempi dell’intenso lavoro di Matteo Fratarcangeli, ma che ben illustrano come la performance non sia solo mera esibizione o spettacolo di esaltati mercanti di spettacolarizzazioni, ma rappresenti al contrario un’espressione di dialogo che sfrutta tutti i mezzi di comunicazione e tutti gli organi sensoriali per creare uno spazio di coinvolgimento che rompe le distanze, i ruoli sociali e scenici, nonché strumento (dai tratti a volte drammatici o comici) di analisi e riflessione valevoli sia per l’artista che per lo spettatore-partecipante.

-Alessio Celletti

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