LA RICOSTRUZIONE DEL LINGUAGGIO ARTISTICO: L’ARTE AUTRE

Lo spettacolo catastrofico di un’Europa ridotta a cumuli di macerie e colpe. Lo scenario di strade popolate da spiriti di uomini la cui dignità sembra essere stata soppressa da anni interminabili di una guerra che ha disintegrato quanto la cultura occidentale avesse difficilmente costruito. Le verità allora celate, presunte, rinnegate, emergono e diventano certezze. La colpa che ricade indistintamente su tutti per non aver impedito che l’orrore dilagasse. Il bisogno di una catarsi che annulli quel passato ancora presente, impresso nelle rovine delle città, collide con la necessità di non sopprimere ciò che è stato. L’esodo verso la ricerca del nuovo. Il bisogno di elaborare quanto accaduto nelle riflessioni di chi resta. La cultura europea ne esce inevitabilmente segnata. L’arte viene esportata altrove, in quell’America che, con difficoltà, ne accoglie e ne studia i caratteri, finendo, anche indirettamente, per assimilarli e farli, infine, propri. Già prima dello scoppio della guerra si era andata sempre più affermando come nuova tendenza l’astrazione, trovando poi definizione nei due poli del pittorico e del geometrico: il primo che sostituisce alla forma concreta la linearità che ne è alla base o la sua trasformazione in una serie di segni all’interno dei quali cercare il significato (Bissière, Klee); l’altra che affida la raffigurazione al rigore geometrico della forma (Mondrian, Kandinsky).

”Si tratta, per il primo gruppo, del rapporto con la grande tradizione della sensibilità francese e con quella sottile equivalenza figurativa che era giunta alla massima fioritura nel XIX secolo; d’altra parte, però, è una presa di posizione nei confronti di una nuova forma pittorica che si propone di integrare la pittura tradizionale e che in Klee il massimo esponente. Quanto al secondo gruppo, esso si articola intorno al grande filone che parte dai pionieri del non figurativo – Kandinsky, Mondrian, Malevich – per svilupparsi poi nello Stijl, nel Bauhaus, nella parigina ”Abstraction-Création”, nella ”Konkrete Kunst” di Zurigo, intorno a Bill e Lohse”.
Non vi è alla base di questi nuovi percorsi un rifiuto netto della tradizione artistica, quanto piuttosto la sua ridefinizione attraverso forme nuove che vogliono proporsi come arte nuova. La classicità viene riletta attraverso il filtro di nuovi linguaggi visivi.
Un rifiuto netto di ciò che è o appare ”classico” è alla base di un terzo polo che origina negli anni immediatamente successivi del dopoguerra. Si tratta di quell’orientamento che Michel Tapié de Celeyran definisce ”art autre”: questo raggruppamento non è privo di modelli; essi sono da rintracciare in riferimenti non classici, ma che derivano da quelle forme di espressione ”periferica” che ha punti di contatto con l’Espressionismo e il Surrealismo. Le origini sono anteriori alla guerra e da fissarsi intorno agli anni ’20, quando, Fautrier prima e Hartung poi, iniziano a produrre opere che declinano l’astrazione in qualcosa di ”altro”. L’affermazione sulla scena artistica è da fissarsi, invece, nel 1951, con la prima esposizione presso la Galleria Nina Dausset che sancirà il riconoscimento di un mutamento artistico generale e vasto (evidenziato anche dalla molteplicità di etichette con le quali la nuova arte viene di volta in volta identificata, Informale, Tachisme, Astrazione lirica).
Nonostante la vastità e varietà della produzione inerente questo raggruppamento, possono individuarsi alcune costanti, come il segno e la macchia. Il primo a dare paternità alla pittura a macchia e al valore materico e simbolico del segno è Hartung. Affascinato dalla pittura espressionista di Nolde, Hartung compie un ulteriore passo che supera la matrice della sua pittura e riscopre nella macchia di colore una potenza lirica cagionata dal ragionato uso di colori, che ”assicurano sfumature ricche e sottili che […] si prestano a tutti i trattamenti […]. si asciugano quasi istantaneamente, consentendo l’intervento immediato con matite e pennelli, come pure del lavoro ”in negativo” in cui Hartung eccelle quando raschia, lacera e penetra nel profondo della materia stessa […]. La superficie viene ottenuta non mediante strati successivi, ma mediante proiezioni perfette e dirette di una materia colma di ogni genere di interferenze misteriose” [Lassaigne]. Nulla è affidato alla casualità e il segno rapido, violento e materico, non rimane impresso sulla tela in quanto tale, ma si carica di significati differenti attinenti al contingente, al dramma del reale, all’emozione suscitata dall’incidere del pennello sulla superficie.
Jean Fautrier (1898-1964) inizia giovanissimo a dipingere, emergendo intorno agli anni ’20. i suoi lavori si compongono di nature morte, paesaggi, presenze umane che emergono da uno sfondo nebuloso di sfondo, staccando da esso pur intrattenendo un rapporto. La maturità della sua ricerca è da segnalare nelle opere degli anni ’40: la verità oggettiva viene allora percepita dall’artista e la nube materica assume il significato della forma e dell”’essere dentro”, continuando ad includere il soggetto, ma anche la realtà. Fautrier non è interessato alla ricerca di una nuova tecnica. Predilige la tradizionale pittura ad olio, ma il suo modo di procedere è originale. Ricorre alla carta anziché alla tela. Distende su di essa uno strato bianco che sarà lo sfondo dal quale, strato dopo strato, emergerà l’oggetto. La massa di materia viene poi distribuita con la spatola, che le conferirà una consistenza disordinata e pastosa.
L’impressione che ne emerge è quella di un caos primitivo, confusionario, informe. L’esempio lampante è rappresentato dalla serie di Ostaggi, esposta tra il 1942 e il 1943 in ricordo dei tragici fatti di Oradour. Apparentemente poco drammatici, essi si presentano come teste deformate, ma, tutto sommato, poco drammatici. Sarà una caratteristica anche dei successivi lavori, come la serie Nudi, del ’46. Un giudizio che emerge, probabilmente, dal tono pacato delle tonalità chiare e dalle sfumature ottenute da esse. Eppure esse mantengono un contatto forte con la realtà: originano dal turbine dell’annientamento postbellico di ogni forma di comunicazione. Sono testimonianza dell’urgenza di rifondare il linguaggio, di riplasmare la forma su basi nuove. Ottimisticamente, la pacatezza della pittura di Fautrier sembra voler trasmettere un messaggio di fiducia, pur estraniandosi dal reale, ma avendo la capacità di osservarne le distorsioni.
L’incontro tra spettatore e realtà è alla base dell’arte di Fautrier. Le figure osservate e riprodotte sono destinate a divenire sempre meno indipendenti rispetto alla nube materia che le incorpora e si unisce ad essa.
Wols (1913-1951) ha molte affinità con l’arte di Fautrier. Vita segnata da vari spostamenti e diverse reclusioni, morì giovane. Il suo distacco dalla realtà è più netto rispetto a Fautrier, anche se in comune hanno la non totale negazione della tradizione, che per lui fu quella romantica francese, ma anche orientale. Ciò spiega quelle opere dal gusto surreale e fantasioso, in cui la centralità è accordata all’Essere in quanto tale. La sua arte è percorsa da un senso pacifico; una ricerca di ordine e pacatezza, tuttavia esse ”non sono il punto di partenza per un’interpretazione della vita più ricca di significato, ma piuttosto immagini di quell’irretimento che coinvolge ogni momento della nostra vita in tutto colmo di mistero e di sgomento”. Le opere del periodo tra il 1939 e il successivo sembrano rinnegare tutto questo. Ne derivano tele nelle quali l’essere è un umano grottesco, alienato, soffocato e soffocante. Immagini crude, pur se suggestive. Tutto questo si accentuerà negli ultimi anni di vita. La metafisica delle origini cede il passo all’azione, al tumulto, all’esplosione. Emerge ”la totalità di tutti i fenomeni in una volta sola, colti nell’attimo breve della partecipazione estatica… che risulta essere un frammento di eternità”. Non più il singolo in sé, ma tutto questo.
La figura di Wols ha un’importanza primaria nell’aver dato inizio ad una nuova fase, quella dell’Astrazione lirica, che, in America, ha il suo modello in Pollock.
Tre artisti che sperimentano la vita, la osservano, la criticano e al contempo vi partecipano per rifuggirla. Le basi di una nuova arte che troverà eco anche fuori dai confini francesi e che avrà il suo massimo interprete in Jean Dubuffet, la cui particolare figura e concezione meritano una trattazione a sé.

-A. Celletti

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