IRIS TERCON: valicare i limiti dell’immaginazione

I. Tercon, Untitled, dalla serie ”Indossatrici”, 2005-2007, 66x100cm, acrilico e olio su tela, courtesy l’artista

Per Iris Tercon (n.1985) la parola d’ordine è ”sperimentazione”. Un termine talmente vasto nelle sue accezioni e nei suoi risultati, ma tale da caratterizzare la personalità e il lavoro dell’artista.

Camaleontica, indipendente, ironica, estrosa più che eccentrica, Iris Tercon mette alla prova l’osservatore attraverso immagini potenti, eccessive capaci di urtare o far riflettere.

Gli studi in Graphic Design compiuti all’ISA di Riccione, quelli in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti a Roma e quelli in Visual Arts allo IUAV di Venezia (nonché le numerose mostre, collaborazioni e workshop) le hanno fornito la materia su cui lavorare per rendere concreto e visivo il suo pensiero; quest’ultimo parte dal presupposto di porre in continuazione sfide, in primo luogo con se stessa e con le sue capacità, ponendo il corpo come leitmotiv delle sue ricerche e facendone il veicolo multidirezionale delle sue opere, nate da temi disparati e col proposito di valicare i limiti della sua immaginazione, superarsi per non cadere in un appiattimento stilistico e tematico.

Attenta e sottile osservatrice della realtà, dei suoi mutamenti, dei suoi pregi e dei suoi difetti, Iris Tercon impronta il suo lavoro sull’attualità che vive e che cattura con uno scatto o interpreta coi suoi disegni e con le sue performance.

L’intervista che segue ha rappresentato l’occasione per affrontare anche temi che travalicano il suo lavoro, come ad esempio l’attuale situazione del sistema dell’arte e la condizione delle artiste all’interno di quest’ultimo.

Come definiresti te stessa come persona e come artista?

<<Come artista cerco di superare i miei limiti. Adoro sperimentare, provare qualsiasi cosa mi attragga, trovare temi anche assurdi e dar loro una voce personale e al contempo più libera possibile.

Sono dominata da un forte spirito creativo, trasversale nelle tematiche e nei vari settori d’interesse. Mi cimento continuamente in campi diversi perché sento la necessità di rinnovarmi, reinventarmi, apprendere nuove tecniche, approfondire tematiche, indagare nuove possibilità. La mia curiosità è divoratrice.

Mentre lavoro, cerco di valicare i limiti della mia immaginazione costruendo e ideando cose che vanno oltre un semplice pensiero razionale. Entro in una sorta di stato semi-cosciente, attivo e completamente aperto, dove mi allontano dal mondo quotidiano e sono ricettiva nei confronti di ciò che la mia mente può produrre>>.

Osservando i tuoi lavori, il primo dato che emerge è un eclettismo nella scelta dei mezzi adoperati e dei temi affrontati. Riguardo ai primi, con quale tra questi (fotografia, video, pittura) senti di esprimerti meglio?

<<Non c’è un mezzo che prediliga, dipende dai periodi della mia vita e dal messaggio che voglio comunicare. A volte, grazie alla natura stessa e alle caratteristiche del mezzo, riesco ad esprimermi al meglio, esasperando le vie possibili che il messaggio mi suggerisce. Altre volte ho già in mente l’idea finita e so già cosa utilizzare e come. Posso fare in alternativa una ricerca ed elaborare un progetto, oppure capita che mi trovi casualmente in una situazione casuale e mi si accenda qualche collegamento mentale. Allora, semplicemente, colgo l’attimo, con i mezzi che ho>>.

Lo stesso eclettismo si nota anche nel processo di realizzazione dei tuoi lavori, nei quali si passa da un neo-barocco in chiave pop (#Pornfood, I Want Your Love, del 2018) ad una reductio ad minimum visiva, come nel caso di Silent minding, Voltages (2014) o in video come Tercon Family(2007) e The Ball (2007), sino all’astrattismo ed espressionismo dei Wallpapers (2017) o di In The Mood of Iris (2017). Questa eterogeneità dimostra che il tuo lavoro è in continua fase di sperimentazione e porta a chiedermi se vi sia un pensiero di fondo o comunque un filo conduttore che tenga uniti tutti questi elementi diversi.

<<Nei miei lavori c’è sempre un velo fosco, generalmente il fervore e l’abisso. In alcuni c’è anche la critica politica, in altri la condizione umana o l’ironia. Adoro sperimentare, stupirmi e stupire, costruire mondi sempre nuovi e diversi, nei quali entrare e vivere in maniera camaleontica>>.

Un comune denominatore tuttavia c’è ed è l’utilizzo del digitale. Una tecnica che ancora fatica a trovare un suo statuto nel mondo dell’arte, ma che, senza dubbio, sta mettendo in discussione gli sviluppi del linguaggio artistico. Quale pensi sia il futuro del digitale all’interno del sistema dell’arte?

<<Penso che non si possa più non considerare l’importanza del digitale oggi. La tecnologia informatica è un qualcosa che è entrato a far parte di noi, ci guida, influisce sulle nostre preferenze, entra nella nostra intimità, ci rende dipendenti e servi. Desideriamo Internet, i social e non possiamo più immaginare di poter vivere senza. Io non riuscirei più solo a dipingere, mi sentirei fuori dal tempo. Noi manipoliamo il digitale che poi si impossessa di noi e tenta di manipolarci e renderci passivi. Ma io non resisto alla tentazione di giocarci e sfruttarlo a mio piacimento. Adoro quel mondo, è materia viva, contemporanea e fluida, voglio berla e partorirne qualcosa.

Il sistema dell’arte è principalmente mercato e un insieme di determinate azioni che danno o meno valore e celebrità ad un artista. Se non sarà adesso, è molto probabile che, quando gli artisti-digitali saranno una quantità notevole, il mercato venderà arte digitale>>.

Alcuni, ad esempio, ritengono che l’avvento del digitale non rappresenti una rivoluzione o una novità ma si ponga come normale sviluppo dei media tradizionali. Altri invece, come Mario Costa, sostengono che si tratti di un vero e proprio cambiamento di tecnica. Parlare di ”continuità” nel ”tentativo di salvaguardare l’identità del fotografico è una vacuo sofisma, anche perché la continuità della fotografia è di ordine chimico, mentre quella del digitale è di ordine elettronico…dunque le dinamiche energetiche sono sostanzialmente diverse” e conclude sostenendo che ”un fotografo che ricorre al digitale non è più un fotografo ma un mero facitore di immagini”. Quale dei due orientamenti senti di condividere?

<<Non conosco questo testo in modo approfondito, ma penso che proprio perché il mezzo tecnologico è così potente da risultare “autonomo” in certi casi, come dice Costa, l’artista debba continuamente aggiornarsi e innanzitutto padroneggiare il più possibile le tecniche del mezzo che utilizza. Sicuramente il digitale ha spalancato una gamma, diversa e complessa, di possibilità in e nei tantissimi sotto-media che vengono a loro volta elaborati o in altri mezzi non digitali che secondariamente subiscono un passaggio attraverso il mezzo-computer. L’artista deve elaborare e rielaborare continuamente il suo pensiero, sporcarsi le mani finché non trova quello che più desidera, non deve mai farsi sopraffare dal mezzo che sceglie. Gli strumenti che usa l’artista sono ciò di cui egli dispone nel momento storico in cui vive e in cui sente di potersi rappresentare ed esprimere al meglio.

Oltre al digitale, tanta arte concettuale oggi, a mio parere, è difficilmente riconducibile all’autore in modo immediato. Nell’arte contemporanea per esempio quante sculture, installazioni, performance, sono così fortemente personalizzate? Al momento io trovo tutto molto frammentario e confuso.

Penso che il digitale sia una macchina da corsa da sfruttare al meglio e da non sottovalutare, ed è importante saperla dominare con la propria creatività non facendosi soggiogare dalle mode>>.

Lo stesso discorso di marginalizzazione all’interno del mondo dell’arte si può operare nei confronti del ruolo delle artiste. Il riconoscimento di una posizione ufficiale è stato lungo e travagliato e ancora oggi questa disparità, per quanto assottigliata, è avvertita. Tu, in quanto artista e donna, la percepisci o, comunque, ti sei trovata nella condizione di sentirti meno valorizzata nel tuo lavoro rispetto ad un uomo?

<<Certamente. Soprattutto per il mio aspetto fisico ho dovuto subire comportamenti fastidiosi e molesti. Percepisco che, di base, ci sia un interesse diverso per il mio genere e persiste comunque la consapevolezza che si possa essere sottovalutati rispetto ad artisti dell’altro sesso>>.

I. Tercon, Enter, frame performance

Restando su questo tema, si può dire tuttavia che questo percorso di affermazione abbia avuto una svolta nel corso degli anni ’70, favorito anche dalle lotte femministe. La Body Art e la Video Art hanno rappresentato dei mezzi efficaci in questa direzione. Artiste come Gina Pane, Marina Abramovic, Ana Mendieta e altre ancora hanno saputo sfruttare questi linguaggi per unire arte e rivendicazione del ruolo femminile nella società. Non ho citato a caso queste tre artiste. Esse sono state tra le principali a portare all’interno del mondo dell’arte la tematica della condizione femminile. Il loro lavoro mi ha fatto pensare a ”Enter” e, in generale, alla tua produzione video, nella quale la figura femminile è sempre protagonista. Quale è la tua percezione del corpo legata all’idea di femminilità e dell’essere donna?

<<Mi piace molto osservare e rappresentare il corpo nelle sue forme più varie e diverse. Forse ho assorbito quest’attrazione da mio padre che, come mia madre un medico fisiatra e che, quando ero bambina, ha orientato il mio sguardo verso le peculiarità fisiche e motorie dei singoli individui. Soprattutto d’estate, al mare mentre camminavamo sulla passerella, mi affascinava ascoltare le sue analisi sui soggetti deambulanti di fronte a noi. Me li descriveva ad ad alta voce, mentre, inconsapevolmente, ne faceva impercettibili imitazioni. Ha creato in me una sorta di fascinazione per il corpo ed ha influenzato il mio interesse per le forme, le linee, le tonalità e il movimento. Questo punto di vista, prettamente medico e riferito alla struttura fisica, alla funzionalità motoria, alla tipologia soggettiva di camminata, così incentrato sul corpo e al contempo come forma asessuata, non mi ha trasmesso alcun tipo di preclusione alle differenze di genere.

La mia idea di femminilità crescendo è cambiata ed è abbastanza combattuta. C’è spesso un rapporto conflittuale tra corpo, cibo e sessualità. Non è semplice per me essere donna. Mi sono sempre trovata bene con i maschi, non mi sono mai sentita una “femmina” nemmeno da piccola. Non percepivo un’identificazione sessuale, mi sentivo solo forte, energica, incontenibile, avevo bisogno di correre, giocare, inventare, disegnare, scoprire, sperimentando tutto quello che avevo a disposizione. Volevo essere solo considerata allo stesso livello degli altri bambini. Mi sono sempre comportata in modo naturale e senza alcun interesse di genere. Sono stati gli altri che mi hanno ricordato e, per la maggior parte imposto, il ruolo secondo i “dogmi” sociali e con mia grande frustrazione. Tutto questo mi ha sempre irritato molto e continua tutt’oggi a farlo. Sono sempre stata fisicamente forte ed è difficile crederlo senza vedermi in azione. Non mi piace essere giudicata, non mi piace l’idea di dover essere sexy per fare carriera, mi piace cacciare. Penso che le donne stiano iniziando a trovare un loro spazio, ma non credo che la percezione sociale sia cambiata molto oltre la superficie>>.

Passando, invece, alla fotografia, vorrei analizzare Voltages.

I. Tercon, Voltages series,Photographs
2014
Moving photographs, variable size, approximately, courtesy l’artista

Il soggetto immortalato è assai frequente nell’arte trattandosi di un paesaggio. La particolarità di questo è che lo scatto avviene in una condizione di movimento, sicché il vero soggetto fotografico diviene quest’ultimo, col risultato finale di una deframmentazione dell’immagine verso l’astrazione. È questo un tratto che ricorre spesso nei tuoi lavori. Cosa ti affascina dell’immagine astratta o meglio della dissoluzione dell’immagine pura?

<<I paesaggi catturati in Voltages creano immagini estrapolate dal vagone di treno regionale, in una specie di performance fisica creata fotografando con scatti ripetuti e impostando in camera dei tempi lunghi.

Tramite l’astrazione è più semplice, imparziale e immediato dare forma all’emozione pura e, così facendo, la si può interiorizzare più liberamente.

Le immagini in Voltages mantengono ancora parti della realtà e lasciano la possibilità di fantasticare partendo da un legame con la terra. Sono ambientazioni, movimenti interiori, sensazioni di angoscia e insieme estensione spirituale verso una dimensione mistica.

Adoro giocare con l’immagine e con le forme, mi piace confondere, mescolare, reinventare, disorientare me stessa e gli altri. Amo stupirmi di me stessa, non essere mai uguale, ridondante. Cerco continuamente nuovi luoghi, elementi ed oggetti, ambienti e situazioni. Voglio superare il miei limiti a partire dalla ispirazione concettuale. Sono sicura che ci sia del nuovo e dell’altro da cui trarre rappresentazioni e che io lo possa trovare come ogni persona sia veramente in cerca di qualcosa. E’ così pieno e così “tanto” il mondo, ci sconvolge e ci emoziona continuamente, ruba, mortifica, regala. Anche io voglio provare a definirne uno mio, a raccontare qualcosa, a masticare qualche colore, in mezzo al nero, corrispondere con le eventualità creare altri mondi, sempre diversi.

E partire dall’astrazione e dall’oscurità mi agevolano largamente in questo compito>>.

#Pornfood esprime appieno quell’eclettismo cui si accennava all’inizio. È, infatti, un progetto che nasce come collage e dal cui miscuglio di immagini fa emergere un universo metafisico dai tratti surrealisti e neo-dadaisti. Un’opera ”pop” che richiama i rocamboleschi mondi di Matthew Barney e David LaChapelle con quel loro stile voyeuristico e fashion, ma che non manca di far emergere tematiche sociali cruciali, che tu traduci in immagini forti di corpi trasfigurati che ricordano i macabri lavori di Joel Peter Witkin e di David Nebreda.Tu lo definisci un lavoro ”manierista”, per quella sua tendenza all’eccesso di forme, colori, immagini che si accumulano in maniera vorticosa e riempitiva, espressione del pandemonio edonistico contemporaneo votato all’eccessività e al consumismo. È un riflesso di una ”società liquida” tendente a relativizzare tutto, all’interno della quale, per citare Kracauer, ”ci muoviamo con tanta facilità e con velocità così impareggiabile che le impressioni stabili cedono a quelle continuamente mutevoli” e di conseguenza, prosegue, ”frantumiamo in elementi paragonabili tutti i complessi sistemi di valori arrivati sino a noi in forma di credenze, idee, o cultura, indebolendone così naturalmente l’aspirazione all’assoluto”.

Come nasce #Pornfood e come mai hai scelto di tradurre il pensiero che vi è dietro in modo così ”eccentrico”?

<<Eccentrico perché ha in sé la prepotenza, un modo per sfogare la mia rabbia, il fastidio, la sfrontatezza e l’ira che, probabilmente, riempie anche l’osservatore di potenza e goduria. Volevo creare una giostra, rimpinzare, rendere un immaginario pacchiano, virulento e buffo, goffo, ironico e promiscuo, osceno e catastrofico.

#Pornfood nasce dalla voglia di raccontare alcuni orrori e decadenze della società contemporanea nei suoi temi ricorrenti. I colori sono quelli usati nella pubblicità di gusto popolare, ad effetto e aggrediscono con la loro saturazione. Gli elementi dei collage sono realizzati in una forma grossolana di ritaglio che definisce la piattezza emozionale e la solitudine morale dei personaggi, resi isolati in un turbinio di oggetti, senza una reale consapevolezza delle proprie azioni. Il cibo, la fame incontrollabile, segue il bisogno di riempire un vuoto che invece viene solo consumato. Sono immaginari barocchi dove il cibo diventa luogo e unico senso dell’esistere.

L’eccentrico si rende palese e colpisce con immediatezza>>.

C’è chi sostiene che di un’immagine siamo abituati a vedere il soggetto, trascurando il resto. Si può secondo te convogliare lo sguardo dell’osservatore dal singolo elemento alla totalità di un’opera, ossia guidarlo a mettere in evidenza un dettaglio anche quando questo è in secondo piano rispetto al soggetto?

<<Certamente. Dipende dalle abilità tecniche e comunicative dell’artista, dalla semplice grammatica visiva, e da quanto egli ritenga di dare importanza a ciò che non sta in primo piano. E in secondo luogo dipende molto da quanto l’osservatore sia ricettivo e interessato ad approfondire l’esperienza relazionale e percettiva con l’opera d’arte.

Progetti futuri?

<<A settembre mi trasferirò tre mesi a Montreal, alla ricerca di nuovi stimoli e nuove esperienze. Al momento sono in fase di studio per i miei prossimi lavori. Contemporaneamente sto collaborando con degli amici a due progetti artistici, la realizzazione di un video musicale assieme all’artista Johanna Invrea, e nella direzione artistica del prossimo cortometraggio del regista Luigi Schiavoni >>.

-A. Celletti