Iconografia in ”Film D’amore e d’anarchia”

”Film d’amore e d’anarchia…” : viaggio nel cinema dal neorealismo agli anni Settanta

Quale è il legame esistente tra cinema e arti visive?

Una risposta univoca sarebbe difficile da trovare, ma un buon punto di partenza sarebbe investigare la finalità di tale congiunzione, la ragione che spinge i registi ad attingere tra le fonti privilegiate alla storia dell’arte.

Un dibattito in materia si è sviluppato, per quanto concerne il nostro Paese, nel secondo dopoguerra, quando per i registi neorealisti il bisogno di rintracciare nel patrimonio culturale quegli elementi che potessero rendere ragione all’idea di ”vero” fu sentito in maniera forte.

Allora le arti visive costituirono un ottimo termine di raffronto, in nome della ricerca di una ”autorialità” del prodotto cinematografico.

La necessità di strutturare un nuovo linguaggio che esulasse dal diretto confronto con i grandi maestri del passato o da una diretta emulazione di modelli altri e il bisogno, di conseguenza, di modelli adeguati a rendere ”vero” il paesaggio nazionale (da intendersi nel senso più ampio del termine), portò all’incontro tra registi, drammaturghi, melodrammatici e scenografi (sovente artisti), per i quali l’esperienza cinematografica fu celebrata come occasione per rinnovare il linguaggio pittorico in vista di una nuova pittura ”animata”.

Si indaga nelle fonti con l’obiettivo di superare il mito eroico risorgimentale e addentrarsi più in profondità, cercando ”il proprio humus, oltre che in una sorta di impressione pittorica italiana, in una tradizione letteraria bozzettistica e vernacolare, nel senso di presa diretta sul vero” (F. Galluzzi), creando un ponte dialettico tra memoria e modernità finalizzato al rinnovamento della cultura italiana.

Il recupero della tradizione, pertanto, passa attraverso due direttrici: da un lato c’è quello che la critica definì ”un ritorno al Verga” e ai suoi soggetti anticonformisti; dall’altro si guarda all’esperienza realistica pittorica che ha il suo promotore in Caravaggio e nei caravaggisti. Se questi erano i modelli di riferimento, bisognava tuttavia tradurli in linguaggio contemporaneo, rinvenirne i corrispondenti. Ecco allora che per la prima direttrice emergere il cinema francese degli anni Trenta e della nascente Nouvelle Vague, nonché le tragiche figure di Dix e Grosz, mentre sull’altro fronte è Renato Guttuso ad offrire nuovi spunti.

Cosa ha a che fare questo discorso con il film della regista Lina Wertmuller, Film d’amore e d’anarchia…” (1973)?

C’entra nella misura in cui si inquadri questo film all’interno delle vicende relative agli sviluppi del cinema italiano successivi alla stagione neorealista.

Gian Piero Brunetta evidenzia bene come l’emergere già a partire dagli anni Sessanta di giovani registi recò un profondo mutamento, segnato da un’audacia sperimentale innovativa e forte che, pur non rinnegando la lezione paterna, tenta di guardare oltre, sempre spinti da un desiderio di autonomia e di autenticità.

Si ha pertanto l’impressione che il neorealismo venga scomposto e da singole trame se ne estraggano frame tematici attorno ai quali sviluppare storie che hanno come protagonisti gli stessi personaggi ”popolari” che hanno animato il cinema neorealista con una accentuazione, tuttavia, dei tipi sulla base di un’idea di ”italiano” prototipa e stereotipata.

Lo stesso rapporto col passato cambia, puntando ora il cinema ad investigare la sfera politica della recente storia senza più riverenza o timore. La modernità viene letta in termini di crisi, ”vista dal basso”, portando a riflettere sulle contraddizioni insite nel processo di industrializzazione.

Uno scenario che si accentua negli anni Settanta, allorché la politica entra di ruolo sullo schermo grazie anche ad una maggiore spregiudicatezza dei registi che puntano maggiormente ad un cinema d’autore avulso da condizionamenti e capace di arrivare attraverso diversi livelli a tutto il pubblico a cui si rivolge, sfidando con molte difficoltà la censura.

”In questi anni di disgregazione delle certezze, di perdita di rappresentatività dei partiti e dei modelli di riferimento, di pulsioni rivoluzionarie e ribellioni edipiche, questo cinema da una parte strizza l’occhio alle spinte eversive…, ma ha anche il merito di far circolare dubbi, di porre interrogativi inquietanti, di riflettere sull’esigenza di decifrare un presente sfuggente e soprattutto di denunciare l’incertezza delle scelte, il riconoscimento degli errori e la caduta progressiva della fede nelle forze politiche organizzate” [Brunetta].

In questo contesto l’arte anche entra in scena da protagonista. Come rivela Francesco Galluzzi, infatti, a partire dagli anni Settanta le opere d’arte non vengono più inserite solo come arredi di scena, ma sono soggette a inquadrature dirette col fine di esplicitare il lavoro di riflessione critica del regista in merito alle scelte stilistiche operate; in tal modo ”il cinema rivela la propria specificità attraverso la dimensione metalinguistica del confronto con la pittura e la scultura, resistendo ad ogni tentazione estetizzante”.

La capacità di assimilazione delle immagini si spinge fino all’assorbimento delle tendenze contemporanee nella specificità di una lettura dell’attualità basata sulla presa di coscienza della ”spettacolarizzazione” della società e dei suoi modelli. L’apporto principale derivò dalla cultura Pop, la cui ”erotizzazione di uno sguardo apparentemente impassibile sulle cose trova ne dispositivo cinematografico una delle sue metafore esemplari”.

Il cinema raccoglie un campionario di immagini dalle quali estrae un vasto magazzino di stereotipi, confermando in tal modo il doppio binario su cui pittura e cinema viaggiano.

Alcuni di questi elementi possono essere rinvenuti nella pellicola della Wertmuller:

-recupero di un fondo neorealista

-il confronto tra passato e modernità

-l’arte come espressione metalinguistica

E’ soprattutto l’ultimo punto quello su cui è bene concentrarsi. Film d’amore e d’anarchia è un film molto iconografico, avendo sfruttato la Wertmuller un campionario di immagini che servono non solo a costruire la trama o lo scenario ove gli eventi si svolgono, bensì assolve alla funzione di caratterizzazione dei personaggi sia nell’aspetto che nel linguaggio. È una galleria di figure quella che si muove su un doppio scenario: quello metafisico e classicheggiante di Roma e quello borghese e miserevole della casa di piacere di Via dei Fiori.

GLI AMBIENTI

Se la prima è la rappresentazione di una città pura, che dalla passata gloria delle sue rovine erige nuove e moderne città, dall’altro vi è il piccolo regno delle prostitute della casa di piacere, costruita come una piccola reggia con le sue sale tempestate di opere d’arte, tanto false come falso è il piacere che ivi viene offerto, con la sua stanza degli specchi, con le sue dame che hanno tanto stile e vena artistica da primeggiare con le stesse opere che la casa espone.

I riferimenti sono chiari: le vedute romane di Mario Mafai e quelle metafisiche di de Chirico per quanto riguarda il paesaggio urbano o quelle di Fattori e dei Macchiaioli per le ambientazioni camprestri si contrappongono alla caricatura dei palazzi romani seicenteschi per quanto concerne l’ambiente della casa.

Una scelta che sembrerebbe voler contrapporre due mondi, quello della purezza sacrale del potere e quello lussurioso delle corti: alla grandezza e all’ordine della città si contrappone quello ristretto e privato e soprattutto torbido dell’altro, che come una macchia infetta il primo e tra le sue mura cela il reale volto del dissenso ad ordini e principi.

I PERSONAGGI

I PERSONAGGI

E’ nella definizione dei personaggi che tutto l’estro creativo della Wermuller si manifesta. Dovendo renderli credibili e soprattutto dovendo farli comprendere e accettare al pubblico, la regista non ha avuto dubbi nel caratterizzarli al naturale, facendoli dialogare nel loro dialetto, ottenendo così come risultato una Babele di lingue diversificate a spiegazione di una frammentarietà nazionale molto accentuata.

Sono popolani nel loro essere, che aspirano ad una modesta gloria compiendo gesti ai loro occhi eclatanti, ma restando pur sempre macchiette.

La loro semplicità viene accentuata da un uso molto forte del trucco, che li trasforma in figure grottesche, caricature degli stereotipi che essi incarnano, vere e proprie maschere che oscillano tra una tragicità di fondo e una ridicolaggine manifesta.

Quali sono o potrebbero essere i modelli di riferimento ai quali la Wertmuller ha attinto?

Se per i caratteri ha senza dubbio tratto ispirazione da tutta una letteratura nostrana di tipologie di umili (quel famoso ”ritorno al Verga” cui si accennava), per la fisionomia di tali personaggi ha dovuto cercare altrove, Oltralpe.

Ciò probabilmente dovuto al fatto che l’arte italiana ha sempre mostrato una certa riverenza al senso del pudore e al rispetto di canoni secolari legati all’idea di una bellezza pura, che ben poco si confà all’ambiente ricreato dalla Wertmuller e lo dimostra il sottile paragone tra la bellezza classica dell’ Afrodite di Doidalsas e Salomè (interpretata dalla compianta Mariangela Melato), dinanzi alla quale la prima sembra impallidire e coprirsi per l’irriverenza di una impudicizia sfrontata.

È stato necessario allora cercare in altri contesti e altre culture, in particolare in quell’arte ”popolare” da non intendersi come registro basso di produzione, bensì tra quegli artisti che, abbandonando santi e madonne, dame e re, hanno indagato tra la gente più umile, mettendone in risalto virtù e debolezze, drammi e passioni.

È senza dubbio l’arte francese del XIX e XX secolo a mostrare maggiore disinibizione verso temi forti, al limite dello scandalo, ma più in generale è l’arte nordica ad aver posto l’accento sul dramma esistenziale umano.

Ecco allora soggetti interessanti emergere dalle tele impressioniste, da Degas a Toulouse-Lautrec (con accenti di quell’orientalismo allora in voga), all’Espressionismo tedesco di Kirchner; dall’Art Nouveau di Mucha sino ai manifesti ideologici del Ventennio e a alla cultura Pop.

Per rendersene conto basterebbe osservare le fisionomie e i caratteri dei due protagonisti: Tunin, ad esempio, è nell’aspetto e nel carattere malinconico non dissimile da Vincent Van Gogh, mentre Salomé, se nel nome evoca la sensuale figura biblica nella sua versione visiva klimtiana, non si discosta da una delle icone del cinema americano, con la loro bellezza dissacrante e il mito della loro persona. Una Marilyn Monroe ante-litteram, più oscena e disinvolta, audace battagliera che, come una moderna Giuditta, non si fa scrupolo a sfruttare la sua bellezza per sconfiggere il nemico, che nel suo caso è il bellimbusto Giacinto Spatoletti (Eros Pagni), uomo fedele al regime e figura futurista di uomo dedito ai motori e alle belle donne, esempio di maschio forte da slogan pubblicitario.

C’è poi tutta la schiera di abitanti e frequentatori di quella Casa di Via dei Fiori oscillante tra una delle ”case verdi” di Utamaro e un locale bohémien parigino.

Infine loro, le prostitute, agli ordini della Dama della Casa e dei frequentatori, chiaro esempio, questi ultimi, di macchie decadenti di dannunziana memoria.

Le prime, invece, incarnano nella loro figura iconica le sensuali ed eteree donne Liberty di Mucha, ma che nell’animo trasmettono (o vorrebbero) la carica erotica e aristocratica delle stampe erotiche di Utamaro; in realtà, nella loro volgarità, risultano molto più affini ai soggetti da uno dei bordelli parigini frequentati da Toulouse-Lautrec, con le loro atmosfere ”cariche di spirito graffiante”. Come per il pittore francese, anche la Wertmuller sembra voler focalizzare l’attenzione sul ”tipo umano”, cogliendolo nella sua unicità, presentandolo come ”maschera nuda”, mettendone in evidenza i tratti salienti ed essenziali.

In tal modo, come scrive Enrica Crispino, Lautrec ”riesce a trasmettere anche le ombre e le inquietudini, le nubi sempre più cupe che si addensano all’orizzonte. Quei tratti fissati senza abbellimenti, quelle espressioni di cui emergono le note dissonanti sono la spia di un mondo che andava alla deriva senza accorgersene, di una generazione che procedeva inconsapevole verso il baratro della prima guerra mondiale [nel nostro caso della seconda, ndr]”.

Queste, al pari delle prostitute della Wertmuller, perdono la loro carica erotica e nulla di pornografico traspare, ma, al contrario, esse trasmettono l’emozione opposta, una tristezza che emerge nei loro sguardi persi, menzogneri; lo sguardo di chi offre per denaro falsa seduzione e amore corporeo, come quello delle donne sottomesse e sensualmente crudeli di Tamara de Lempicka.

Non sfuggì d’altronde, neanche a Baudelaire questa nota malinconica, rilevando che le prostitute (nel suo caso di Lautrec) ”appaiono prostrate in atteggiamento di noia disperata, in un’indolenza da sala d’attesa, di un cinismo mascolino, fumando qualche sigaretta per ingannare il tempo, con la rassegnazione del fatalismo orientale”.

Non rassomigliano allora queste prostitute a quelle della Casa di Via dei Fiori? Tripolina (Lia Polito) dagli occhi innocenti e malinconici non trasmette forse la stessa angoscia di uno sguardo vuoto di un Modigliani?

Ecco allora la fondamentale rilevanza del rapporto tra cinema e arti visive. Entrambe raccontano storie, celando dietro l’illusione della tela e della cinepresa racconti di vite, di esperienze.

Il cinema ”ruba” caratteri alla letteratura e le anime all’arte. Le adatta, le ricostruisce e così facendo ne modella da nuove, in un percorso unidirezionale nella definizione dell’essere, della sua lettura storica, culturale e sociale e alla fine di questo tragitto non resta che un magazzino di ”figure” da consegnare alla storia e alla società.

-A. Celletti

FONTE IMMAGINI: WEB

BIBLIOGRAFIA

-G.P. BRUNETTA, Guida alla storia del cinema italiano 1905-2003, ed. Einaudi, Torino, 2003, pagg. 204-221

-E. CRISPINO, Toulouse-Lautrec, ed. Giunti, Milano, 2014

-F. GALLUZZI, Le avventure delle immagini. Percorsi tra arte e cinema in Italia, ed. Solfanelli, Chieti, 2009, pagg 13-82