HOPPER E IL REALISMO ”CONFUSO”

Edward Hopper nacque nel 1882 in una cittadina presso il fiume Hudson. La sua famiglia, di estrazione borghese, appoggiò la passione pittorica del giovane, ma fu costretto ad iscriversi ad un istituto commerciale, che ben presto abbandonò, trasferendosi a New York dove frequentò la Chase School (o School of Art). Sarà questa un’esperienza fondamentale; dai suoi insegnanti (in particolare Robert Henry e Merrit Chase) apprese due concetti che impronteranno tutta la sua produzione artistica: dal primo imparò ad andare nei musei e a ritrarre qualsiasi cosa. Da Henri ad utilizzare la natura come mezzo per riprodurre emozioni, ricercare l’essenza di sé. Le ”reazioni più intime che l’oggetto così come esso appare nel momento in cui lo amo di più […]. Il miglior modo per arrivare ad una sintesi della mia esperienza interiore” [Hopper]. Tra il 1906 e il 1910 compì una serie di viaggi a Parigi e in Spagna(1910). Questi offrono ulteriori spunti alla definizione pittorica hopperiana: a Parigi, infatti, Hopper non frequentò l’accademia o i musei, ma preferì alle istituzioni i caffè, la strada, la Senna, le luci ed ombre naturali e luminose che la città regalava. Tornato a New York la sua arte risultò profondamente mutata sotto l’effetto suggestionante di Manet, Courbet, Degas, gli artisti della Scuola di Barbizon, Goya. Fino al 1912 la sua pittura risentì della grande lezione francese, preferendo poi, da questa data, selezionare soggetti americani.
Perché è importante sottolineare l’influenza francese e dunque europea? La risposta è da rintracciare in una certa riluttanza americana ad accogliere le ricerche europee. Hopper, da parte sua, si discosta dalle linee artistiche americane e aderì al Gruppo degli Otto in cui era presente anche Henri. Per lui il realismo proposto dagli artisti (quelli identificati come appartenenti alla Hudson River School), con quelle scene di vita dura e drammatica, sortivano l’effetto di creare una caricatura della vita americana.

Il 1913 è l’anno della celebre Armory Show: anche Hopper è presente con alcuni quadri, ma non vendette altro che un quadro. Da allora sino al ’24 la sua produzione rimase nell’ombra. Per la pittura americana, da allora, il confronto con le novità europee fu inevitabile e ne segnò il corso. Il successo della mostra aprì la strada al trapianto delle tendenze astrattiste e molti degli artisti europei ( si pensi a Duchamp, Gorky e Rothko) preferirono trasferirsi a New York che si preparava a divenire il nuovo centro nevralgico dell’arte.
1924: Hopper finalmente ottiene la possibilità di tenere una sua personale, grazie al gallerista Frank Rhen. Da allora il successo lo accompagnerà sino alla morte, avvenuta nel 1967. Tale successo si spiega anche con il rinnovato clima culturale segnato da una sorta di ”ritorno all’ordine”, di riscoperta dei valori americani (è l’epoca del proibizionismo d’altronde). Le sue opere furono donate al Whitney Museum, comprese alcune tele tenute dalla madre. Molte di queste opere oggi costituiscono la gran parte del corpus hopperiano.
-IL REALISMO DI HOPPER

 

Come si è già avuto modo di dire, il realismo a cui aderisce Hopper si discosta da quello a cui aderirono diversi artisti americani. Ad egli non interessa voler riportare sulla tela ”l’american scene” caricandola di pietismo e drammaticità. Orietta Rossi Pinelli scrive che Hopper, invece, conferisce un’impronta così personale alla scena ”da trasfigurare tutto in un atto privato di possesso”. Hopper dipinge per se stesso. Dipinge le emozioni che coglie dall’osservazione diretta non di frangenti di vita, ma di quegli istanti che lo colpiscono quando è la luce a risvegliare emozioni. La luce per Hopper è tutto, ”è una forza espressiva importante, ma non ne sono mai del tutto consapevole”. La luce è la vera protagonista: come un riflettore colpisce la scena e la costruisce con un rigore geometrico di matrice quattrocentesca, ma anche contemporanea: Giotto, ma soprattutto Mantegna e Piero della Francesca e, come qualcuno ha evidenziato, Mondrian. Una costruzione attraverso segni carichi di accenti universali in ogni contesto. Spesso riduttivamente considerato pittore della realtà urbana, Hopper viene spesso elogiato per la carica malinconica che conferisce ai personaggi delle sue opere. Quello che bisogna comprendere è che al pittore non interessa lo stato psicologico dei suoi personaggi: questi perdono individualità e vengono riassorbiti nell’atmosfera del contesto che li circonda. È l’interezza della rappresentazione che bisogna considerare. Quegli spazi tagliati da una luce che investe anche le ombre e le illumina. Uno spazio che si espande ben oltre i confini della tela, suscitando nell’osservato quella sensazione di frangente colto in attimi di vita quotidiana, spesso ripetuta. Tutto è immobile e immutabile. Antonio Pinelli evidenzia il rapporto tra la luce di Hopper e quella di Vermeer, quella luce che in entrambi emana dalla materia stessa , dai corpi.
E. Hopper, Nighthawks, 1942, Art Institute, Chicago
Tutto questo aiuta, continua la Rossi Pinelli, a demistificare quell’alone di solitudine che sembra pervadere le scene hopperiane. È lo stesso Hopper a dire che il tema della solitudine è esagerato. ”Definisce qualcosa che non vuol essere definito. Renoir diceva che il più importante elemento in una pittura non può essere definito […] non può essere spiegato e forse è meglio”.
Hopper. Timido, introverso, solitario. La sua vita ruota intorno alla sua ricerca, alla sua pittura. Un disagio che in un certo senso i personaggi mostrano nello spazio che tentano di tagliarsi gli uni rispetto agli altri. Non si osservano, non hanno relazioni dirette. Vivono nella torre d’avorio della sensazione ”spiata” dall’artista, inconsapevoli che lo sguardo da cinepresa si sta posando sul mondo da loro vissuto in quell’attimo. Sarà questo il motivo per il quale in molti hanno scelto ambientazioni isparat ai suoi dipinti per i loro lavori (Hitchock, Bill Viola, ecc.)?
Un regista della vita; di quella stessa esistenza proiettata in un mondo che rivive per effetto della luce che lo plasma.
E. Hopper, Western Motel, 1957, Yale University Art Gallery, New Heaven
E. Hopper, Night Windows, 1928, MoMA, New York
E. Hopper, Morning Sun, 1952, Columbus Museum of Art Museum of Art
E. Hopper, Sunlight in a Cafeteria, 1958, Yale University Art Galery, New Heaven
E. Hopper, Automat, 1927, Des Moines Art Center, Des Moines, Iowa
E. Hopper, Tables for Ladies, 1930, Metropolitan Museum, New York
E. Hopper, Summertime, 1943, Delaware Art Museum, Wilmington
E. Hopper, Portrait of Orleans, 1950, Fine Arts Museum, San Francisco

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