”AMORTE”. Una bizzarra e ingenua combinazione di tre termini. Amore, arte, morte. Tre espressioni che riassumono l’arte di F.GT. Tre espressioni e Ross. E’ il 9 gennaio di vent’anni fa quando a New York si spegne Felix Gonzalez Torres. Artista controverso, amato ma forse poco compreso, Gonzalez Torres, come qualcuno ha giustamente evidenziato, incarna un’epoca e la sua fine, un mondo e le sue contraddizioni, perenni contrasti tra le logiche sociali e i sentimenti privati.
Nasce a Guaimaro, Cuba, nel 1957 e a quattordici anni il padre lo manda in Spagna, trasferendosi poi in Portorico. Dopo un breve ritorno nella terra natale parte per New York dove si stabilirà definitivamente, studiando al Pratt Institute e all’International center of photography.
Leggere la sua opera significa principalmente intrecciare fili diversi in una matassa che trova la sua ragion d’essere in motivi apparentemente distanti, in contrapposizione, ma che l’artista sa fondere con la grazia di una poesia visiva che ancora oggi affascina e intenerisce.
Ma l’arte di Gonzalez Torres può essere ridotta a mera confessione di un amore e di un male che uccidono? No. Bisogna scavare più a fondo, cogliere le influenze che lo hanno suggestionato, il bagaglio emotivo che si porta dietro, il rifiuto costante di un sistema che non vuole tuttavia combattere, ma semplicemente migliorare.
Fondamentale l’esperienza del femminismo artistico, da Jenny Holzer a Barbara Kruger con il loro proposito di sovvertire l’ordine sociale o quella del Minimalismo degli anni ’60, che molto lo affascina soprattutto perché in esso l’artista ritrova l’elemento in cui crede fortemente: l’economia dei mezzi e l’assenza di qualsivoglia forma di linguaggio. ”Io faccio oggetti che non parlano, non uso il linguaggio”1. .Sono oggetti che vivono un hic et nunc alla disponibilità di tutti. Non parlano ma sono visibili, vivibili nella loro infinita riproducibilità e distruzione perenne, un segno tangibile e concreto dell’esistenza dell’artista, del suo esserci in quel momento. Se sotto molti aspetti dunque la sua opera si avvicina al Minimalismo (dalla purezza e semplicità degli oggetti alla loro presenza puramente materiale), quest’ultimo si fonde con un concettualismo in cui emerge la questione più spinosa dell’arte di Gonzalez Torres: la dialettica pubblico-privato.
L’artista ne parla spesso nelle interviste distinguendo tra il pubblico e privato di un’opera e parlando di rapporto tra spettatore e l’opera stessa. Riguardo a quest’ultimo aspetto, per lui il luogo d’esposizione gioca un ruolo importante per la sua diffusione, per la sua ricezione da parte dell’osservatore, che, come si vedrà, ne deve divenire parte attiva. Sostiene, infatti, che il fatto che un lavoro sia posto all’aperto non ne fa necessariamente un’opera pubblica, mentre, al contrario, se questo viene posto in spazio privato (ad es. una galleria), può essere pubblico nella misura in cui crea una relazione. ”Spesso quando un artista fa un intervento di arte pubblica, trascina l’opera fuori, in un posto in cui la gente non ha alcun riferimento per questo genere di cose. E’ la differenza tra arte in pubblico e arte per il pubblico”2
Sovente gli è stato chiesto a quale tipologia di pubblico fossero destinati i suoi lavori e la sua risposta, tra l’ironico e il serio, è che il suo unico pubblico era Ross, il compagno morto anche lui di AIDS nel 1991.
”Ci spostiamo continuamente tra la dimensione pubblica e quella privata. […] La vita pubblica è privata e viceversa. E quindi qualche volta, penso che il mio pubblico fosse solo Ross”3.
Ma, al di là dell’intimo destinatario, il pubblico nei lavori dell’artista è presente e non si riduce a mero spettatore, bensì, come dichiarato da Torres, deve assumere un ruolo di primo piano nel compito di ”attivare l’opera”. Ciò può essere compreso se pensiamo al valore di alcune installazioni: dal cumulo di caramelle ai fogli disposti in cataste e che sono alla portata di tutti; semplici oggetti, consumabili e rinnovabili, ma destinati ad esaurirsi. Come ha osservato Lorenzo Camerlengo ”la sua poetica parte dalla teoria di Brecht sul teatro epico, che trasforma lo spettatore da passivo ad attivo osservatore dell’azione sociale. Nella maggior parte delle sue opere infatti il pubblico è invitato a prendere una parte degli oggetti che compongono l’installazione condividendo qualcosa con l’artista”4. In effetti, da Brecht Gonzalez Torres ha raccolto il pensiero di mantenere una certa distanza a lasciare tempo allo spettatore di riflettere e pensare ”a distruggere il piacere della rappresentazione, della narrazione scorrevole. Voglio che lo spettatore sia coinvolto intellettualmente, informato, provocato”5
Ecco dunque come si spiega l’interazione pubblico-privato. Prendiamo ad esempio l’installazione Untitled (Placebo) del 1991, che bene chiarisce quanto detto: le caramelle vengono disposte nello spazio e il peso dell’opera assume un valore fondamentale, essendo il peso del compagno Ross, già malato. Prendendo le caramelle l’opera si consuma, come si sta consumando il corpo di Ross. L’artista mette in scena il dramma finale dell’esistenza rievocandola ad infinitum in una transustanziazione dello spirito nella materia, in un’ultima cena, in cui ciascuno smembra il corpo dell’amato e portandolo via attiva una condivisione e una riflessione ”sulle sue esperienze più intime. Partecipe e responsabile il pubblico accetta”6.
Avviene così anche in altre installazioni: l’opera in sé non esiste in quanto tale per essere vista, ma essa deve trasmettere, unire e nel suo essere semplice oggetto diviene incarnazione e simbolo dell’amore, della sua fragilità, del suo essere ragione di vita e di panico, come sostiene l’artista.
E l’oggetto, che non è opera pur essendo opera , per l’artista ha il pregio di acquisire sempre nuove valenze dipendenti dal soggetto che le sceglie.
Ma vi sono lavori che non richiedono un intervento diretto dello spettatore, che non hanno come fine la narrazione. L’artista, che alle volte descrive i propri sentimenti anche verso ciò che è fuori dalla sfera privata, richiede di ”sentire” quei lavori, accogliere il sentimento, per l’appunto, che esse sprigionano. Si pensi a Untitled (Perfect Love), anche questa del 1991, una delle installazioni più celebri di G. Torres: due orologi posti uno accanto all’altro, che iniziano a ticchettare insieme, fin quando non si sfasano e uno dei due smette di segnare il tempo. Anche l’aspetto minimale, come sottolineato correttamente ancora una volta da Camerlengo, elimina ogni elemento decorativo che possa distrarci e permettere così di concentrarsi solamente sul suo significato, legato al rapporto di coppia destinato a finire. Così come Untitled (America), del 1994, in cui le lampadine (richiamando le suggestioni luministiche di Dan Flavin) invadono lo spazio e lo illuminano, lo definiscono, sono destinate anch’esse a consumarsi.
Vi è dunque sempre senso di precarietà, di fredda oggettività materiale, dove non c’è spazio per lo spirito, ma nell’ottica del ”tutto si crea e tutto si distrugge”, Gonzalez Torres grida all’ineluttabilità degli eventi, va alla ricerca del sentimento per indagarlo e portarlo alla luce passando attraverso il dramma di Ross e poi del suo. Non vi è nessuna possibilità di salvezza, nessun dio, perché solo accettando l’inesistenza del divino si può cogliere l’aspetto positivo della vita; non ci sono luci e anche qualora sembra di trovarle, anche queste sono destinate a spegnersi.
Amore, paura, dissoluzione sono i temi che ruotano attorno alla poetica di questo artista sui generis. Ma vi è ancora un ultimo aspetto da considerare: il carattere sociale dell’arte di G. Torres che s’intreccia con la fondazione a New York nel ’79 da parte di Julie Ault, Tim Rollins e Doug Ashford del Group Material, collettivo artistico il cui scopo è quello di far uscire l’arte dai suoi spazi e disseminarla nel sociale. Si torna così alla già citata distinzione tra arte in pubblico e arte per il pubblico: il Group Material esportando l’arte fuori dai luoghi deputati crea arte pubblica, ma nel difficile tentativo di creare una risposta collettiva, la destina al pubblico e riesce nell’intento richiamandosi all’esperienza del Da Zi Baos, l’affissione di manifesti, nella Cina di Mao, di carattere sociale e politico, anticipando le dinamiche contemporanee d’interazione attraverso gli schermi virtuali. Allora era il cartellone pubblicitario a fungere da attrazione e Gonzalez Torres ne è consapevole e con It’s just matter of time, del 1991, ”occupa” le strade della città con cartelloni raffiguranti un letto vuoto, disfatto, con due cuscini e il segno della presenza svanita nella sagoma sul cuscino. Portando l’opera fuori dal contesto museale, totalmente artistico, rende, come è stato notato, il lavoro di dominio pubblico, fuoriuscendo dalla dimensione intima.
Anche creando un tappeto di caramelle E disponendole sul pavimento, l’artista sfida il canone museale di esposizione scegliendo, come dice lui, uno spazio marginale e al contempo provocando l’osservatore, invitandolo a prendere quegli oggetti e portandoli via dal museo; ciò piace all’artista che parla di generosità, di rifiuto di forme statiche a favore di altre fragili, instabili, che altro non è se non un modo per mettere in scena la paura della perdita di Ross.
Ross e l’amore, Ross e la paura, Ross e la dissoluzione, Ross e il pubblico. Rosss il pubblico. Allora l’amore realmente investe l’opera di G. Torres, la scolpisce e la colora di una patina melodrammatica, la eleva ad elegia funebre e a condivisione collettiva.
Geniale, romantico, solitario: il nostro artista, per tornare a quanto già affermato all’inizio, rappresenta un’epoca, quella della questione dell’immigrazione, dell’omosessualità, dell’AIDS, avvicinandolo a noi, ai problemi che ancora oggi investono la società.
Ha dunque rappresentato un decennio, quello degli anni ’80 da lui tanto odiati
perché sembrava che non ci fosse più un passato, perché vedeva solo ”una produzione spropositata di grandi dipinti con grandi colate di colore e c’erano tutti questi orrendi personaggi che facevano qualcosa nell’East Village, gentrificando il quartiere e dipingendo di notte”7; quegli anni in cui si avvertiva il bisogno di abbattere i tabù, in cui la perversione, in tutte le sue dimensioni, sembrava essere divenuta il nuovo idolo. La Pop-art viene superata e nello stesso tempo riassorbita in forme nuove di contestazione che trovano espressione sui muri, nelle pellicole, nel bisogno concreto di uscire dalle logiche di mercato, di deificazione dell’artista maledetto. Gonzalez Torres se ne tiene fuori: non accetta se stesso se non attraverso i suoi lavori riuscendo a ”deludere” le aspettative comuni mettendo in scena non scandali, ma oggetti quotidiani.
Figura a sé, dunque, rispetto alle stravaganze degli artisti che pullulavano allora il Village o Soho; che alle feste deliranti preferiva una serata al cinema col suo Ross; che non voleva uno studio perché lo rendeva nevrotico l’idea di doversi recare in un luogo per creare. Geniale nella capacità di costruire istallazioni senza progettarle: una caratteristica del suo modo di operare era infatti quella di non prendere appunti, non pensarle. ”Io non seguo alcun percorso prescritto”.
Allestisce le sue esposizioni in poche ora e se ne va.
Sette anni di strepitoso successo. Sette anni in cui l’artista ha saputo sondare l’emotività umana. Sette anni per entrare di diritto nell’olimpo dell’arte ed uscirne alla morte.
Oggi, infatti, pochi ancora tengono in considerazione la sua opera che pure si pone ad un crocevia, chiudendo una stagione artistica, quella della post-avanguardia e aprendo ad una nuova, caratterizzata, da un lato, dalla sempre più marginalità dell’esperienza artistica e della sua promozione limitata oramai ai grandi nomi e, dall’altro, dall’affermarsi dell’installazione come una delle più diffuse espressioni artistiche e, ancora, tecnologizzandosi, sfruttando i moderni mezzi di comunicazione e in tal modo socializzandosi. Un’arte ”chiusa” tuttavia che entra ed esce dalle istituzioni tradizionali perdendosi in una miriade di realtà artistiche e meno per le quali è giunto il tempo di cominciare anche a riorganizzare la critica artistica.
Gonzalez Torres ha saputo evitare il carattere spettacolare nella sua produzione, optando per una semplicità dei mezzi funzionale alla diffusione del messaggio che con la sua arte ha voluto veicolare.
1 F. Gonzalez Torres, intervista con Maurizio Cattelan, http://moussemagazine.it/articolo.mm?lang=it&id=59
2 Ibid.
3 Ibid.
4 C. Sinesi http://www.allaroundkaarl.com/felix-gonzales-torres-amore-perdita-sofferenza-emozione/
5 F. Gonzalez Torres, intervista con Tim Rollins,
6 Lorenzo Camerlengo http://artecontemporanea.accademia.laquila.it/felix-gonzalez-torres/
7 F. G. Torres, intervista con Maurizio Cattelan