D’AVANGUARDIA ED OLTRE. ROMA: FASCISMO, VALORI PLASTICI E LA SCUOLA ROMANA

ROMA: VALORI PLASTICI, FASCISMO E LA SCUOLA ROMANA
Ci si potrà chiedere cosa leghi il Futurismo, la Metafisica e  Novecento a ‘’Valori Plastici’’, al fascismo e alla Scuola romana?
I legami sembrerebbero labili, ma essi si intrecciano alle volte in maniera complessa e, forse, a tratti un po’ forzata.
Il Futurismo si è detto essere il primo e, forse, l’unico movimento d’avanguardia italiano del primo ‘900. L’unico ed ultimo anche ad imporsi con successo sulla scena artistica internazionale. La sua vicenda può essere descritta nei termini di una parabola discendente. Essa, infatti, mostra l’arte italiana scadere in un provincialismo che da quel momento ne segnerà la storia.

L’esperienza di de Chirico, invece, può essere letta come un punto di snodo: da un lato va a collegarsi , anche se probabilmente indirettamente, con il razionalismo architettonico privilegiato dal fascismo che, nella sua rigorosa geometria, trova punti di contatto con le architetture delle piazze dechirichiane. Dall’altro lato, de Chirico è strettamente legato alla rivista ‘’Valori Plastici’’. Fondata da Mario Broglio nel 1918, sul numero d’apertura tra i vari scritti compare ‘’Zeusi l’esploratore’’, in cui viene lanciata la parola d’ordine ‘’Bisogna scoprire il demone di ogni cosa’’.
‘’Valori plastici’’, come Novecento, che non fu solo un movimento pittorico, finisce col non essere solo una rivista. Raccoglie intorno a sé un gruppo di artisti che terrà alcune importanti mostre, fino allo scioglimento nel 1922.
Molti sono i punti di contatto con il Novecento della Sarfatti e di Bontempelli: anche la rivista romana esprime da subito la necessità di fondare un nuovo linguaggio che guardi al futuro, ma evitando al contempo lo sperimentalismo e il linguaggio caotico delle avanguardie. Si vuole creare un’arte che abbia una sua identità nazionale, evitando di non scadere nel tradizionalismo o facendo propria la lezione futurista. Broglio identifica nella metafisica il percorso da seguire, in quella pittura antica e moderna allo stesso tempo, con una posizione critica dell’avanguardia e dell’Impressionismo. Questo viene condannato dall’editore come responsabile dei percorsi futuri dell’arte moderna verso quella che egli chiama ‘’ultima pittura’’, caratterizzata dalla ricerca di un’originalità che passa attraverso la creazione di nuove forme e nuove tecniche, dal bisogno di esaltazione individuale dell’artista e del suo genio.
‘’Abbiamo potuto vedere l’arte rinunziare alla sua funzione metafisica, per farsi complice di tutte le debolezze’’ 1.
Un recupero dunque della classicità ma filtrata attraverso la lezione metafisica. Anche il Novecento della Sarfatti andava alla ricerca di un ordine classico, sicché sembrerebbe che tra i due orientamenti non traspaia una sostanziale differenza. Non è così. Il Novecento, pur nella varietà delle sue ricerche, muove da un classicismo neoquattrocentesco, che si fonde con le suggestioni del realismo magico di tedesca derivazione, il quale rinnega la lezione espressionista e propone una visione razionale del mondo. Un linguaggio fortemente intriso di tradizionalismo, basato sulla ricerca di caratteri fortemente italiani, da un rigore pseudo-accademico, rifiutato proprio da Valori Plastici. Quest’ultimo mostrerà, invece, una vivace apertura verso il contesto europeo, soprattutto francese (a cui sarà interamente dedicato il secondo numero della rivista pubblicato l’anno successivo), tedesco e quello olandese ruotante intorno alla rivista De Stijl. È un fattore quest’ultimo da non trascurare, perché l’esterofilia e l’antiaccademismo saranno due dei tratti che più caratterizzeranno l’arte degli artisti della cosiddetta ‘’Scuola romana’’.
L’esperienza di Valori Plastici, iniziata nel 1918, nel giorno della firma dell’armistizio con l’Austria, si concluderà nel 1922, anno della marcia su Roma, attraversando la fase dei mutamenti che seguirono il periodo postbellico e facendosi interprete a suo modo di una volontà generale di cambiamento, di un ordine nuovo.
Valori Plastici rappresenta una delle varie manifestazioni artistiche nella Roma postbellica e prefascista. Uno sguardo alla Sezione cronologica dell’Archivio della Scuola Romana mostra un vivace contesto animato da esposizioni, dibattiti culturali su varie riviste, confronti tra artisti di varie correnti, l’emergere di nuovi artisti; non si dimentichi la presenza di de Chirico e suo fratello nella capitale, la sua partecipazione costante alle diverse esposizioni , il ruolo di primo piano nel dibattito artistico.
Non si è concordi pertanto con S. Bignami e P. Rusconi laddove sostengono che il sistema delle gallerie romane sia meno articolato rispetto a quello milanese; meno innovativo invece lo è sicuramente 2.
Passando in rassegna la cronologia dell’Archivio in sintesi tra il 1918 e il 1922 si possono segnalare alcuni importanti avvenimenti:
-1918: oltre alla già ricordata pubblicazione del primo numero di Valori Plastici, da ricordare la Mostra d’arte indipendente pro Croce Rossa, tenuta presso la Galleria L’Epoca, in cui espongono Prampolini, Soffici, Maria Mancuso, Carrà con L’ovale delle apparizioni, La musa metafisica e Il cavaliere occidentale e de Chirico con Il trovatore, Ettore e Andromaca e Natura morta.
Il 4 ottobre, invece, viene inaugurata a Via Condotti 21, primo piano, con una mostra di Balla, la Casa d’Arte Bragaglia.’’ Un centro storico di lievitazione intellettuale,misto di violente correnti politiche rivoluzionarie in cameratesco contrasto con gli artisti risultandone un sanguinoso scambio di idee […] non più nell’isolamento della vecchia torre d’avorio’’ come lo avrà a definire Carlo Ludovico Bragaglia, che ricorderà come quella mostra ospitò tutti gli -ismi allora presenti nel panorama intellettuale, dal futurismo al nuovo dadaismo di Giulio Evola.
-1919: viene pubblicato il secondo numero di Valori Plastici dedicato interamente alla situazione francese. Alla Casa d’Arte Bragaglia una personale di de Chirico, importante per la storia della pittura romana, viene stroncata da Roberto Longhi con una recensione dal titolo ‘’Il dio ortopedico’’ in cui si legge:
<< I miti ellenici decapitati presentano credenziali alle statue di Cavour. Le civiltà si riecheggiano, le ciminiere delle officine si alleano ai mastri medievali. Mentre Pirelli e Borso d’Este s’intendono al primo sguardo del loro occhio artificiale>>3.
In aprile esce il primo numero della rivista ”La Ronda”. In essa viene tratteggiata una nuova figura di intellettuale, rivolto ai suoi problemi individuali e alle questioni tecniche, attento affinché il gusto non s’inquini e si tenga a distanza dalle questioni politiche. Si ricercano nuove eleganze, anche in uno stile defunto, perché ciò perpetra la tradizione dell’arte italiana: questo scrive nel prologo al primo numero Vincenzo Cardarelli.
Dello stesso anno anche lo scritto dechirichiano ‘’Il ritorno al mestiere’’ con il celebre epilogo:
<<Mi fregio di tre parole che voglio siano il suggello di ogni mia opera: Pictor classicus sum. […] Invitiamo i pittori redenti o redentori alle statue […] per imparare la nobiltà e la religione del disegno, alle statue per disumanizzarvi un po’, chè […] eravate ancora umani troppo umani>>4 .
Il 1920 non si caratterizza per particolari eventi. Solo la mostra di de Pisis da Bragaglia e la ricorrenza del quarto centenario della morte di Raffaello. Per l’occasione de Chirico scriverà un articolo in cui del maestro urbinate loda ‘’il concetto metafisico dell’apparenza plastica nella sua estrema solidità’’5.
Due eventi non romani da segnalare. La prima Biennale veneziana dopo la guerra diretta da Pica, il quale dichiarò di aver aperto alle  varie aspirazioni giovanili per aver un grado complessivo delle tormentate e inquiete ricerche di quella generazione, unitamente a confronto con retrospettive impressioniste e presenza dell’avanguardia internazionale. I romani partecipano con un gruppo disomogeneo, composto da Ferrazzi, Guidi, Selva ecc .
Scipione, Uomini che si voltano, 1932
Altro evento: la prima Esposizione Internazionale d’arte moderna del dopoguerra, presso la Società delle Nazioni. L’arte italiana è rappresentata dai futuristi, da de Chirico e Modigliani; tra i romani sono presenti i Ferrazzi e Deiva de Angelis.
-1921: inaugurata al Palazzo delle Esposizioni la I Biennale romana, Esposizione nazionale di Belle Arti nel cinquantennio della capitale. Presentate le retrospettive di Nino Costa, Giovanni Fattori, Gaetano Previati. Tra i contemporanei Carlo Socrate e Amerigo Bartoli, Oppo e ancora Ferrazzi.
A Berlino intanto, alla mostra dei ‘’Giovani Italiani’’, vengono presentate le opere degli artisti di Valori Plastici. L’esposizione avrà un’importanza straordinaria, essendo alla base del linguaggio europeo del Realismo magico.
-1922: la Casa d’Arte Bragaglia si sposta in Via degli Avignonesi. Ad aprile si tiene a Firenze la Mostra della Pittura italiana del Seicento e del Settecento. L’anno precedente sul terzo numero di Valori Plastici de Chirico intervenne con uno scritto che suscitò diverse polemiche. A settembre si tiene presso l’Accademia di S. Luca una commemorazione per il centenario della morte di Antonio Canova.
28 ottobre 1922: LA MARCIA SU ROMA6.
M. Mafai, Demolizione dei borghi, 1939
Una marcia che si carica di una simbologia forte e al tempo stesso di un significato storico di grande importanza: segna l’avvento dell’Era fascista con tutto ciò che ne deriverà, tanto sul piano politico quanto sociale e culturale. Da quest’ultimo punto di vista si è già visto come il fascismo non imporrà mai una linea artistica di tipo oppressivo-repressivo, vale a dire, non interverrà con censure simili a quelle che invece colpiranno gli organi di stampa o la letteratura; non privilegerà una specifica linea di tendenza, ma sosterrà una sorta di ‘’pluralismo estetico’’, che è la definizione, secondo alcuni, migliore per esprimere il rapporto tra le arti e il regime7 .
Altra categoria storiografica impiegata è quella di ‘’politica estetizzante della dittatura’’, con riferimento all’importanza data da Mussolini all’immagine propria del fascismo8 e in primo luogo del suo creatore. È una definizione questa che bene si adatterà agli interventi urbanistici promossi: dopo aver preso il potere, il fascismo lavorò al fine di ottenere una ‘’fascistizzazione’’ o romanizzazione degli spazi urbani, di Roma in particolare. L’Alma Mater, tra i vari epiteti attribuiti, doveva risplendere della gloria passata, presente e futura.
‘’Fascismo di pietra’’9 è l’efficace espressione coniata da Emilio Gentile che bene esprime il progetto di intervento nel tessuto urbano, al fine di dare risalto al modello di una nuova civiltà imperiale. Ma il grande storico avverte anche della necessità, quando si parla della città nel periodo considerato, di distinguere tra la Roma classica, fascistamente intesa (in termini cioè visionari), la Roma reale e quella propriamente fascista.
Si può il tutto riassumere dicendo che gli interventi sulla Roma reale furono finalizzati alla creazione della Roma fascista, la quale mirava ad emulare, o meglio, a far rivivere la grande Roma dei Cesari.
A. Raphael, Veduta dalla terrazza di Via Cavour, 1929
‘’Questa rinnovata estetica romana si tradusse in un interesse crescente per i resti dell’antichità romana, che furono restaurati, riportati alla luce e ‘’liberati’’ dalle costruzioni circostanti, per divenire in un certo senso la grandiosa scena della vita pubblica fascista, creata da storici, archeologi, storici, classicisti e architetti, che lavorarono insieme al culto dell’antichità nella cosiddetta ‘Terza Roma’ fascista’’10.
Jan Nelis fotografa pertanto lo scenario romano all’indomani della presa del potere da parte di Mussolini. È interessante notare come si parli di ‘’grandiosa scena della vita pubblica’’, con evidente riferimento al carattere rituale e collettivo di cui si servì il regime, perché non era solo la diffusione dell’ideologia che poteva rendere fascista la società, ma la si doveva vivere, vedere concretamente. Roma diviene un grande teatro pubblico, il tempio dove il grande culto viene celebrato in un apparato scenografico nuovo, maestoso, che esalta cosa e soprattutto chi ha liberato l’Italia e la sua capitale dalle catene di una barbarie che si perpetrava dal Medioevo, colui che ha reso possibile quella rivoluzione che muterà il volto della città e della nazione intera. Mussolini celebra se stesso nelle vesti di nuovo Augusto e nei rinnovati fasti di una Roma che, sotto il piccone degli architetti e degli archeologi, vive la sua terza rinascita.
Terza rispetto a cosa? Si è accennato ad Augusto, alla barbarie medievale: il primo ammirato come il più grande imperatore dell’antichità, colui che ha reso concreta la vocazione universale dell’Impero; la seconda, invece, è la responsabile della caduta di tale Impero. A salvare o, quantomeno, tentare di ridare a Roma quel volto glorioso intervennero Carlo Magno col suo Sacro Romano Impero e la Chiesa con la renovatio paleocristiana.
Due interventi, politico uno e religioso l’altro, ma soprattutto ideologico e territoriale il primo e architettonico il secondo: se Carlo Magno cercò soprattutto di infondere l’idea di una rinnovata rinascita della romanità filtrata attraverso la cristianità, la cosiddetta rinascita paleocristiana (all’incirca a metà del XII sec.) si concretizza in interventi urbanistici e architettonici volti a riportare alla luce il volto originario della cristianità. Queste due tendenze sembrano ora trovare sintesi nella Terza Roma mussoliniana, che unisce ideologia e interventi concreti, con l’obiettivo, per citare nuovamente il Nelis, di formare lo spirito nuovo fascista, nello Stato nuovo fascista (una variante del celebre ‘’Abbiamo fatta l’Italia, facciamo gli Italiani’’ tradotto in ‘’Abbiamo fatto lo Stato fascista, facciamo i fascisti’’).
La convergenza tra sfera politica e religiosa, d’altronde, si manifesta anche nel consueto topos della missione imperiale affidata da Dio a Roma per lo sviluppo della civiltà e la pace dei popoli11 .
Un ultimo aspetto da considerare del pensiero di Nelis riguarda la dicotomia archeologi/architetti e antichità romana/Roma fascista.
Scipione, Cardinal decano, 1932
Si deve immaginare una Roma in cui, ai lavori nei Fori Imperiali, seguono quelli degli architetti volti a valorizzare quei resti e ad esaltare con nuove architetture e nuovi quartieri la grandezza fascista: tutto questo, nel caotico tessuto urbano romano, come fu possibile?
Bisogna aprire una digressione a questo proposito sull’assetto urbanistico della città, partendo dai cambiamenti in essa verificatisi dopo la fine della Prima Guerra Mondiale sino a giungere ai grandi ‘’sventramenti’’ provocati durante la sua risistemazione sotto il fascismo.
Sul numero de La Fiera letteraria del febbraio 1929, C. E. Oppo si domanda: << E’ Roma una città trasformabile in una grande metropoli moderna con strade larghe centinaia di metri e lunghe chilometri e chilometri, senza offendere l’arte e la storia?>> e la sua risposta è no!12 Per Oppo è sì necessaria la nuova Roma imperiale auspicata da Mussolini, ma in un luogo nuovo e ‘’lasciare la Roma repubblicana imperiale e papale dov’è e quasi com’è’’, procedendo invece in questo settore della città con interventi seri di restauro.
Quella di una Roma nuova che dovesse sorgere disante dal centro non è un’idea nuova e non è Oppo il primo a proporla; di egual parere era Marcello Piacentini, uno tra i maggiori architetti romani prima e durante il regime e, nonostante il suo pensiero, uno tra gli ‘’sventratori’’ del centro capitolino.
Andando oltre gli aspetti meramente ideologici della questione, un intervento sulla città era ormai inevitabile. A causa della grande crisi del ’29, il mercato edilizio ne approfittò e attraverso atti di vero e proprio sciacallaggio, favorì la costruzione di quanto più possibile, da tutte le parti; questo anche perché le conseguenze di una simile politica edilizia non si ripercuotevano sul centro della città, sede dei quartieri borghesi, ma si arrestavano lontano, nella periferia. Italo Insolera, nella sua Roma moderna, un secolo di storia urbanistica (1870-1970), scrive che proprio in questo periodo si accentua il divario tra la Roma borghese e quella popolare: una rottura sociale, alla quale seguì durante gli anni del fascismo un distacco topografico, con la demolizione dei quartieri poveri nel centro della città. Il dialogo tra centro e periferia viene così evitato, con quest’ultima ormai ignorata e mantenuta con ‘’paternalistici interventi’’13. Essa finirà col costituire con le sue baracche, il cui numero aumenterà a guerra terminata, il nucleo originario di quelle ‘’borgate’’ che saranno lo sfondo di tanta cultura neorealista nel secondo dopoguerra.

 

Un vero e proprio bassofondo sociale, come lo definisce l’autore, un problema contro il quale la soluzione prospettabile era una solamente: la loro eliminazione. Nessun provvedimento fu preso per arrestare nuove immigrazioni indiscriminate e dunque nuove baracche, la cui presenza materiale collideva di fatto con l’immagine che il regime fascista voleva dare della città, la quale doveva apparire meravigliosa, ordinata e potente agli occhi del mondo, come ai tempi del primo Impero di Augusto14. Si provò anche a farle passare come residui della propaggine campagnola, ma con scarsi risultati, e si passò allora ad attaccare baracche e baraccanti, additandoli come quel <<disordinato assedio di cenci pestilenti. Pestilenze fisiche… e pestilenze morali, poiché i germi del vizio e del delitto allignano in quei tuguri>>15. Soluzioni varie furono proposte, rimanendo sulla carta. Intanto proseguiva l’opera di costruzione di nuovi quartieri e di case cosiddette ‘’rapide’’, costruzioni di basso valore per senzatetto e baraccanti. Lo sblocco dei fitti inoltre provocherà uno spostamento di popolazione dal centro alla periferia. Gli anni della Roma fascista iniziavano con un netto peggioramento della periferia e del centro.
A pochi mesi dalla marcia su Roma, in un discorso tenuto al Campidoglio, Mussolini enunciava le sue idee sulla grande capitale del fascismo: questo doveva emulare quanto costruito dagli imperatori romani, facendo piazza pulita di ciò che si era costruito nei ‘’secoli della decadenza’’ intorno ai ruderi che devono tornare a grandeggiare come trofei del passato16.
A questo punto, dunque, si poneva il problema di come intervenire, di quale modello seguire. Oppo, nel già citato articolo su La Fiera letteraria richiamava la contrapposizione tra coloro che volevano fare della capitale una ‘’modernissima città’’, all’americana, e quelli che la volevano conservare tale e quale; gli archeologi che ne volevano fare un museo e una tomba e gli artisti che avrebbero voluto conservare solo quanto necessario ai fini della bellezza17 . Le parole di Oppo si caricano certamente di una forte dose d’ironia, ma inquadrano la questione che emergerà con forza tra il 1929 e il 1930, quando a confrontarsi saranno due opposte tendenze.
La prima è quella ‘’tradizionalista’’ rappresentata da un gruppo di professionisti, con a capo Gustavo Giovannoni, i quali, durante la mostra intitolata ‘’La Burbera’’, discussero la possibilità di demolire tutto il centro barocco di Roma per sostituirvi un sistema di cardi e decumani modellati sugli schemi castrensi dell’antichità.
La seconda tendenza è quella, invece, ‘’modernista’’, legata maggiormente al pensiero di Piacentini, del Gruppo urbanisti romani, che, al Congresso dell’Internetional Federation for Housing and Town Planning, tenutosi a Roma nel 1929, esposero quelle che per Insolera furono le migliori idee in materia, tra l’altro volutamente ignorate, col risultato, continua l’autore, di dar vita a quanto c’era di peggio nella cultura urbanistica di quegli anni, ossia il Piano Regolatore del 1931. Il loro progetto si basava su tre principi:
-spostamento del centro verso Castro Pretorio.
-spostamento della stazione oltre il quartiere San Lorenzo,
-ampliamento della città nel settore est.
A questi erano connessi i relativi progetti stradali e metropolitani. Non era la consueta somma di case e sventramenti, ma si prospettava l’immagine di una Roma futura che voleva essere una città moderna. Un’adesione, in fondo, all’idea di Piacentini dello spostamento del centro per salvare l’avvenire di Roma18.
Gli sventramenti non furono di fatto evitati e dal 1924 la città fu vittima del ‘’piccone demolitore’’ fascista.
I primi interventi furono finalizzati ad esaltare gli antichi resti romani: s’iniziò dagli sventramenti intorno ai ruderi dei Fori Imperiali fino alla creazione e inaugurazione nel 1930 dell’arteria stradale che da Piazza Venezia conduceva al Colosseo e che prese il nome di Via dell’Impero(oggi via dei Fori Imperiali).
Nel 1936 Piacentini e Attilio Spaccarelli furono incaricati di redigere il progetto per la distruzione di Borgo, presentato lo stesso anno al duce nella Sala Paolina e al papa Pio XI nelle Logge Vaticane. Il 28 aprile 1937 fu dato il primo colpo di piccone, ma i lavori si protrarranno sino al 1950 quando verrà inaugurata, in occasione dell’anno santo, Via della Conciliazione. Molti altri furono i lavori apportati nella città, tanto da mutarne il volto. Insolera sottolinea il ruolo marginale svolto all’inizio dei lavori dagli architetti, sostituiti, invece, dagli archeologi.
La componente archeologica, ad esempio, distingue gli interventi fascisti da quelli attuati a suo tempo da Haussmann a Parigi: questi demoliva senza riguardi, ma seguendo un piano preciso che mancava, invece, per Roma. Gli archeologi romani da parte loro erano maggiormente interessati, sulla base di una concezione storico-artistica e archeologica, stilistica e monumentale, a salvaguardare quei monumenti, come il Colosseo, che di fatto erano il volto storico e mondiale della città. Tutto ciò che non era romano non era accettabile; ecco perché attaccarono la città medievale e rinascimentale, <<come se si trattasse di una colata lavica discesa su Roma invece che su Pompei nei giorni della sua gloria>>19.
L’archeologia divenne scusa e pretesto per operare sventramenti senza quel rispetto per la storia e l’arte invocato da Oppo20, talora con interventi operati nella più totale incultura: Via dell’Impero di fatto venne ad alterare l’immagine unitaria e storica dei Fori, seppellendo sotto la colata di calcestruzzo della moderna strada una cospicua parte di quel patrimonio, mentre chiese medievali e barocche venivano demolite per il semplice fatto di occultare i più meritevoli resti antichi sepolti sotto di esse.
La città che non ha un centro ne vuole creare uno. Arterie stradali vengono progettate radialmente attorno a nuclei concentrici, che sortiscono l’effetto di congestionare ulteriormente il traffico (Piazza Venezia rappresenta l’esempio più eclatante). Mentre le città europee nel XX secolo tendono alla decentralizzazione, Roma si muove in senso opposto, al prezzo di demolizioni di intere abitazioni.
Quelle abitazioni esigevano un’opera di risanamento, che l’intervento fascista risolse con la totale demolizione. Risolto un problema ne sorse di conseguenza un altro: dove sistemare gli ‘’sfrattati’’? In quelle zone periferiche, in cui, operata anche lì una demolizione coatta delle baracche, stavano sorgendo quartieri popolari che assunsero da subito il termine fortemente dispregiativo di ‘’borgate’’. Borgata come sottospecie di borgo, <<un pezzo di città che non ha la completezza e l’organizzazione per chiamarsi ‘’quartiere’’, oppure un agglomerato rurale>> limitato nel suo sviluppo da un sistema da retaggio feudale21.
La città rinnova il suo aspetto in una struttura gerarchicamente ordinata, che s’irradia concentricamente dal centro alle periferie e da queste si espande oltre. Una struttura urbanistica riflesso di una nuova gerarchizzazione del sociale, che nel suo moto centripeto, verso il centro ultimo, simboleggiato dal duce, richiama una concezione del potere di derivazione bizantina, riflessa a sua volta nelle piante circolari di palazzi e chiese; Roma, nella sua profana sacralità diviene il tempio del culto fascista. Questa contaminazione storica di mito, realtà e ideologia s’intreccia con il discorso architettonico delle città di nuova fondazione. Vere e proprie colonie, testimonianza diretta di un’architettura che può essere definita fascista e che avrà nel razionalismo della scuola architettonica romana il suo maggiore interprete.
Bignami e Rusconi trovano un legame tra fascismo e romanità proprio nelle città di nuova fondazione, attraverso il recupero di schemi urbanistici degli insediamenti militari romani e la tipizzazione delle costruzioni di maggiore valore simbolico22; il caso più noto è quello delle città dell’Agro pontino, in particolare Sabaudia, città dagli elementi contraddittori: il richiamo alla città antica nella divisione planimetrica sul tipico schema cardo-decumano, il richiamo ai quartieri razionali tedeschi degli anni ’20, i rimandi alla tradizione italiana con piazze porticate, chiese, palazzi comunali. Al rigore geometrico e decorativo dell’architettura modernista si aggiungono però alcuni tratti classicheggianti, come colonnati e loggiati, privi di ornato. Gli architetti razionalisti propongono così una loro continuità tra passato e presente, in linea con le ambizioni del regime23.
La mostra romana del 2002, Metafisca costruita, ha evidenziato la capacità di questi architetti di saper ricreare le atmosfere stranianti e irreali, materializzazione delle città metafisiche di de Chirico. Si spiega ora il legame tra Metafisica, razionalismo e fascismo. La Metafisica fornisce gli schemi di ordine e razionalità, che su richiesta del fascismo, l’architettura razionalista, abolendo il tratto enigmatico dei dipinti dechirichiani, realizza.
L’Agro pontino, col suo mito della bonifica e della ‘’posa della pietra pietra’’, col suo esaltare i valori di una tradizione ancora legata alla dimensione rurale, viene ovunque menzionato come ‘’perla del razionalismo’’.
Tornando a Roma. Come Giano bifronte, la città mostra dunque i suoi due volti, antico e moderno. La valorizzazione di queste antichità e modernità passa, però, anche attraverso canali più tradizionali e meno incisivi: le mostre, innanzitutto.
Dal 1929 una rigida regolamentazione attribuirà al Sindacato nazionale fascista Belle Arti la materia relativa a mostre ed esposizioni, prevedendo un capillare controllo su tutto il territorio nazionale attraverso la pianificazione di mostre provinciali e regionali, che vennero a scardinare il sistema precedente delle vecchie organizzazioni. Queste mostre avevano il vantaggio di portare in primo piano le nuove generazioni di artisti, costituendo per essi una sorta di passaggio necessario per approdare alle grandi esposizioni, come la Quadriennale romana, istituita nel 193124.
Importanti anche le Biennali romane, che dal 1923 assumeranno il nome di Mostre internazionali di Belle Arti. In occasione della seconda edizione della manifestazione, Francesco Trombadori avverte la coscienza di un nuovo orientamento, affermando che le opere dei giovani artisti non si possono dire più collocate nelle ‘’falangi della solita pittura italiana’’25. La scena artistica, dunque, si rinnova tra approvazioni e critiche. Un decennio dopo, in occasione della prima mostra Interregionale, Ugo Ojetti scriverà sulle pagine del ‘Corriere della Sera <<tanti quadri e sculture lontani dalla […] bellezza, dal vigore e dalla salute: e ahimè le più erano opere di giovani?>>, mentre lo scultore Romanelli accuserà l’esaltazione di questi giovani, la cui avidità di successo li porterà alla decadenza e alla perdita di ‘’spina dorsale’’26.
Accanto ai giovani continuano le retrospettive sui grandi artisti del passato o sui grandi maestri della scena internazionale. Numerose le mostre a cui de Chirico partecipa o vengono a lui dedicate, tra le quali la Terza Biennale del 1925, insieme alle opere di Carrà e Martini. In una sala, allestita da Oppo per gli artisti rifiutati dalla giuria ufficiale, compaiono i primi saggi di Scipione e Mafai (testimonianza di Di Cocco)27 .
Queste e molte altre manifestazioni si potrebbero citare, dall’attività rivolta verso l’estero della Galleria di Roma a quella delle ‘Botteghe Sindacali’, le quali avevano l’indubbio vantaggio di portare in primo piano le più vive manifestazioni dell’arte moderna, <<anche se Roma non ha un movimento di arte moderna: non vi sono gallerie di vendita dedicate alla selezione degli artisti: nello stesso ambiente dove oggi si osserva la mostra di un artista nel senso vero della parola, il giorno dopo si può vedere la rassegna pietosa di un artista mancatissimo>>28; ai fini del discorso che si vuole svolgere bisogna fare, però, un salto in avanti e arrivare al 1929, precisamente al 21 gennaio di quell’anno.
Al Circolo di Roma, in Palazzo Doria, si tiene la prima mostra collettiva in cui espongono Mario Mafai e Gino Bonichi, in arte Scipione. È la prima testimonianza dell’apparire sulla scena nazionale dei due ‘’padri’’ dell’espressionismo romano, dei due artisti che, insieme alla Raphael, giunta a Roma nel ’24, costituiranno il nucleo primo di un eterogeneo movimento, che nel volger di pochi mesi raccoglierà molti pittori, scultori, letterati: nasce nel 1929 la ‘’Scuola di Via Cavour’’. È una definizione coniata da Roberto Longhi con riferimento alla casa nell’omonima strada di Mario Mafai e sua moglie, la vulcanica lituana Antonietta Raphael, i quali diedero vita ad una sorta di casa-studio frequentata dalle personalità culturali più attive, tra le quali figurano Pirandello, Ungaretti, lo stesso Longhi.
Questa prima apparizione ne decreta subito il successo: nello stesso anno parteciperanno anche alla I Mostra del Sindacato laziale fascista, in occasione della quale Roberto Longhi tenta di definire gli orientamenti della situazione romana29 e alla Casa d’Arte Bragaglia, insieme ai maggiori rappresentanti dell’Impressionismo e del Realismo magico. Intanto anche le collaborazioni con editori e riviste diventano frequenti.
Ma di cosa si parla quando si fa riferimento alla Scuola romana, e quali ne sono i tratti distintivi, quelli che ne fanno un’esperienza unica, isolata, nel panorama artistico italiano?
Alla prima domanda si è già data una risposta, definendola come un gruppo di artisti e intellettuali attivi a Roma tra gli anni Trenta e Cinquanta. Un’esperienza breve, eterogenea, ma significativa dei gusti e del clima di incertezze e inquietudini che accompagnano un ventennio che vede l’Italia trascinata nel baratro dalla Guerra e il suo riemergere tra mille difficoltà e contraddizioni; se Scipione e Mafai trasmettono con le loro opere l’immagine di una città decadente e in corso di demolizione,con una lirica malinconica per quella loro città devastata, Renato Guttuso, che giunto a Roma nel 1937 si legherà alla cerchia dei pittori romani, col suo esasperato realismo sociale, volgerà le ricerche del gruppo verso una più forte lettura politica, testimoniando e denunciando, a partire dal secondo dopoguerra, i mutamenti in atto nella cultura italiana, in particolare muovendo contro l’americanizzazione dei costumi e dell’arte (contro la diffusione dell’astrazione pittorica in particolar modo).
L’esperienza della Scuola continuerà anche negli anni ’60 (con la Scuola di Piazza del Popolo) fino a poter, in modo azzardato, includervi alcune tendenze transavanguardiste di Cucchi negli anni ’80; tuttavia, si può ritenere che la migliore stagione dell’arte romana del XX secolo sia quella che fa capo agli iniziatori, a Scipione, Mafai e alla Raphael, appunto. Quest’ultima ricopre all’interno del gruppo una notevole e recentemente riscoperta importanza. Giunta a Roma dopo un soggiorno a Parigi, dove entra in contatto con la cerchia più innovativa dell’avanguardia, in particolare con Chagall, la Raphael si farà promotrice della cultura espressionista nordica, suggestionando coi suoi racconti e la sua arte i due amici. Roberto Longhi, commentandone l’opera esposta alla prima Sindacale del Lazio, nel 1929, dirà: << [la sua pittura] rivela i vagiti o la rapida crescenza di una sorellina dello Chagall>> collegandola così alla cultura slava ed ebraica che a Parigi s’era largamente radicata30. Francini sulle pagine de L’Italia letteraria la definirà ‘’indiavolata, […] una ragazza all’americana in una camerata d’educande, in sede attuale, rischia di convertire al suo espressionismo il più accanito realista in senso più o meno accademico’’31. I suoi paesaggi romani sono trepidi e incendiati, accaldati, malinconici, dolci e violenti, senza orizzonte o linee prospettiche. Così li definisce Fabrizio D’Amico e questi sono i tratti di quella tensione emotiva che si manifesta sulla tela in impasti materici densi, in tonalità di colori accese e vibranti che si risolvono in una figurazione selvaggia, pregna di senso drammatico e di emozioni visionarie, in linea con lo sperimentalismo espressionista europeo. Anche il Trombadori riconosce nella pittrice un contributo nella conoscenza del pluralismo linguistico d’oltralpe, ma nega l’apporto fondante della sua pittura per l’arte di Scipione e Mafai: ella diede più che altro un avvio allo slancio vitale dei due pittori, anziché una vera e propria lezione di aggiornamento figurativo, traendo piuttosto lei stessa dall’esperienza dei due alcune sortite pittoriche32.
Ciò che li caratterizza come ‘’romani’’ , secondo Michela Danzi e Sandro Orlandi, sarebbe la ricerca di risposte a interrogativi di sfondo etico, percependo le forti tensioni di un periodo instabile e traducendole in modo intimo e personale. Rifiutano la lezione accademica e lo scadimento al formalismo di Novecento (con cui il gruppo avrà contatti), privilegiando un barocchismo basato sull’uso di tonalità calde e una più libera modulazione delle forme, liberate dai rigori dei canoni classici. Non vi è alcun desiderio di evasione o azzeramento del dato reale,ma emerge, al contrario, una solida coscienza politica e sociale33. È così per Mario Mafai, erede diretto dell’angosciato messaggio di Scipione (la grande personalità del gruppo), il quale manterrà un fermo impegno politico come militante comunista. Una sofferenza aspra, quella di Mafai, che nella serie delle Demolizioni offre il veritiero ritratto dell’urbanistica fascista, della stolta politica del piccone.34
La sua formazione è tradizionale, anche se, già da adolescente, contesterà gli insegnamenti del maestro Calcagnodoro. Iscrittosi all’Accademia delle Belle Arti, trascorre con Scipione le sue giornate chiuso nelle sale della biblioteca di Palazzo Venezia dove i due scoprono l’arte di Velasquez, Pontormo, Goya, El Greco, Piero della Francesca e, attraverso immagini in bianco e nero, anche le opere degli impressionisti, dei fiamminghi e dei tedeschi35. Personalità tranquilla, rispetto a quella della moglie e dell’amico, Mafai orienta il suo linguaggio verso una pittura tonale commossa e fantasiosa36. Longhi segnala la sua pittura come ‘’allucinazione espressionista’’, a tratti malinconica, rammaricata, oscillante tra un lirismo intimo e la denuncia pubblica.
Attorno ai tre artisti si muove poi una cerchia di altre giovani personalità: da Leoncillo a Mazzacurati, dai fratelli Afro e Mirko a Pirandello e Cagli, si formano allora i primi nuclei delle future tendenze che dal dopoguerra segneranno la scena italiana contemporanea, dal Fronte Nuovo delle Arti ai movimenti astratti, dal post-espressionismo al realismo di Guttuso; i principali fautori di queste tendenze possono eleggere Roma a sede del loro apprendistato e riconoscere nei geni di Mafai, Raphael e Scipione le loro fonti d’ispirazione.
Per concludere si riporta la descrizione del critico francese Waldemar George, giunto a Roma nel 1933 per esporre a Mussolini la sua teoria sull’arte ‘’umanista’’. Anche se l’arte moderna è per il critico fenomeno di degenerazione e materialismo, tuttavia rimane colpito dall’arte di Cagli, di Capogrossi, nella quale dice di aver trovato un corrispettivo della sua teoria. Nel catalogo per la Mostra alla Galleria Jacques Bonjean, tenuta a Parigi nel dicembre del ’33, parlerà infatti di Ecole de Rome, contrapposta a quella di Parigi sulla base di caratteri nazionali. Si legge: <<Essi sono italiani. Restano indigeni. Raggiungono l’universalità senza alterare l’idioma del loro territorio, senza deviare dalla loro linea, senza smettere di essere se stessi. […] Essi difendono i diritti dell’immaginazione[…]. Tutto diviene chiaro. I sogni s’incarnano, ed i miraggi prendono corpo. L’arte italiana entra in una nuova fase. […] La giovane scuola romana segna l’avvento della composizione. […] Nessuno di questi artisti è illustratore. Ma tutti traducono situazioni plastiche, tutti trasmettono situazioni di vita, tutti parlano spontaneamente la lingua del corpo e del viso umani, tutti collocano l’uomo in cima alla scala>>37.
A. Raphael, sculture,
L’arte italiana entra in una nuova fase. Roma rinasce anche come patria delle arti. L’alma mater, la sacra e la profana città eterna, coi suoi caffè, le sue riviste, i suoi ingegni, annulla l’immagine di provincialismo a cui è stata ridotta da molta storiografia. Molto ha da offrire questa fucina di creatività, questo fondo di tesori passati, di nuove idee, questo cantiere contemporaneo dell’arte. È questa la Roma reale di Scipione.
1M. Broglio, Pittura ultima, testo apparso sul primo numero di Valori Plastici, 15 novembre 1918. Cft. anche S. Gallo, G. Zucconi, Arte del novecento, pagg. 231-234

2S. Bignami e P. Rusconi, Le arti e il fascismo, Italia anni Trenta, in Art dossier, pag. 46

3Fonte tratta dalla Cronologia dell’Archivio della Scuola Romana. Provenienza non rintracciata

4G. de Chirico, Il ritorno al mestiere, 1919, cit. in Archivio della Scuola romana

5G de Chirico, ‘’Convegno’’, n.3, 1920

6Per un approfondimento sugli avvenimenti culturali del periodo compreso tra il 1918 e il 1922 Cronologia della Scuola Romana, in Archivio della Scuola romana, consultabile online.

7S. Bignami, P. Rusconi, Le arti e il fascismo. Italia anni Trenta, pag. 4

8Vedi nota precedente

9E. Gentile, Fascismo di pietra, Ed. Laterza, Roma, 2007

10J. Nelis, Imperialismo e mito della romanità nella Terza Roma mussoliniana, articolo apparso in Forum Romanum Belgicum, Roma, 2012

11Così in D’Ambrosio, Il Duce e L’Impero, cit. in J. Nelis, vedi nota precedente

12Nel testo di legge: ‘’E’ possibile lasciare Roma nello stato attuale di convulsione e caos, con un traffico che giorno per giorno va prendendo un aspetto più spaventoso, con una popolazione che cresce a vista d’occhio […]? Credo che tuttti dovrebbero rispondere di no’’, cit. in Archivio della Scuola romana

13I. Insolera, Roma moderna, un secolo di storia urbanistica, 1870-1970, Ed. Einaudi, Torino 2001, pag.103

14B. Mussolini, 1925 cit. in op. pag. 105

15G. Zucca, Delenda Baracca, in ‘’Capitolium’’, gennaio 1931, cit. ancora in op. pag. 106

16Cit. del discorso di B. Mussolini, in I. Insolera, Roma moderna, un secolo di storia urbanistica, pag 118

17Vedi nota 39

18Vedi nota 40 pagg. 123-125

19Ibid. pagg. 126-131

20Vedi nota 40

21I. Insolera, Roma moderna, pag. 135. Il testo prosegue poi con un’analisi attenta dei mutamenti generati da questa nuova realtà: peggiorarono le condizioni di vita, dovute ad ambienti scarsi e ad un isolamento di questi luoghi rispetto al centro, aggravato da una disagevole rete di comunicazione. <<Nel volgere di pochi mesi tra i baraccamenti abusivi e le borgate ufficiali non vi fu più igienicamente alcuna differenza>>

22S. Bignami, P. Rusconi, Le arti e il fascismo, Italia anni Trenta, in Art dossier, pag.21

23S. Gallo, G. Zucconi, Arte del novecento, 1900-1944, pag. 170

24S. Bignami, P. Rusconi, Le arti e il fascismo, Italia anni Trenta, in Art dossier, pagg. 14-15

25Vedi cronologia Archivio della Scuola romana

26Cit. in Le arti e il fascismo, Italia anni Trenta, pagg. 16-17

27In Archivio della Scuola Romana

28E. Zanzi, articolo apparso su ‘’La Gazzetta del Popolo’’, 7 gennaio 1931
29Sulle pagine de L’Italia letteraria scriverà :<< Nessun’altra mostra aveva fornito una così equa rappresentanza di quei pittori giovani e giovanissimi, ognuno dei quali ha, per così dire, un pubblico già preparato ad intenderlo’’, cit. in Archivio della Scuola romana
30Così in F. D’Amico, Antonietta Raphael: estasi e dramma
31Ibid.
32A. Trombadori, La pittura di Scipione, in Scipione 1904-1933, Macerata, Palazzo Ricci, 6 luglio- 15 settembre 1985, pag. 17
33M. Danzi, S. Orlandi, Focus artistico sulla Scuola romana
34G. C. Argan, A. Bonito Oliva, L’arte moderna 1770-1970-l’arte oltre il Duemila, Ed Sansoni, 2002, pag. 196.
35In Biografia di Mario Mafai, Centro Studi Mafai-Raphael, consultabile online alla pagina www.raphaelmafai.org
36In Enciclopedia Treccani
37W. George, cit. in Archivio della Scuola Romana