CESARE TACCHI e la stagione Pop

1965, C. Tacchi mostra personale alla Galleria La Tartaruga 2_Foto Plinio De Martiis. Archivio Galleria Il Segno, Roma

Figura artisticamente in secondo piano rispetto agli altri artisti gravitanti attorno al nucleo di quella che venne chiamata ”Scuola di Piazza del Popolo” (ossia la cerchia di artisti che erano soliti riunirsi presso il Caffè Rosati, tra i quali Mario Schifano, Giosetta Fioroni, Tano Festa, Mambor), Cesare Tacchi (1940-2014) ha il privilegio di aver attualizzato l’arte del tempo (gli anni ’60) riuscendo a rappresentarne una sintesi e un superamento. Dedito alla pittura, ma ”tappezziere” per definizione, Tacchi ha saputo fondere l’artisticità con l’artigianalità, trovando stimoli in una Roma culturalmente attiva, attrazione per  artisti di orientamenti diversificati (che sconfinano dalla pop art sino a Duchamp), ma che rappresentava un ottimo terreno di ricerche e confronto anche sui versanti del cinema, della musica, della letteratura. Una stagione culturalmente vivace nel clima felice del boom economico che, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, sembrava aver regalato all’Italia un nuovo volto, moderno e opulento, fatto di possibilità e affascinata ”vittima” dell’americanizzazione socio-culturale dei costumi. Il proliferare di Gallerie e l’occasione di confronto tra gli intellettuali furono terreno fertile di scambio di idee, di visioni, di lavori. La Gallerie, in particolar modo (come ad esempio La Salita o La Tartaruga) costituirono dei ponti tra la cultura nostrana e quella d’Oltralpe (specie francese), orientata verso un ricerca che, muovendo da una rilettura dell’Informale, stava sempre più volgendo le attenzioni all’oggetto in quanto materiale e materia e il suo rapporto con la società dei consumi. La grande rivoluzione apportata dall’affermarsi del consumismo, sia come trainante economico che come stile e nuovo atteggiamento, aveva spinto il dibattito su alcuni aspetti della subcultura attinenti, ad esempio, al cinema, alla pubblicità, alla moda e alla trasmissione del messaggio: il dominio dell’immagine per il tramite del media che lo diffonde va lentamente sostituendo l’indagine sul reale con quello della realtà intermedia, ossia tradotta, per l’appunto, in immagine. In una tale situazione le sperimentazioni erano ben accettate, anzi, come lo stesso Tacchi affermò in un’intervista, ciò che spingeva gli artisti verso soluzioni nuove e ardite era il desiderio di stupire, di creare tutto ciò che potesse in qualche modo rappresentare una rottura con la tradizione. Una tradizione che in Italia si fondava sul provincialismo nel quale era piombata la pittura dopo la fulminante stagione avanguardista e che ormai stava cercando di superare anche l’Informale, sorpassata di fatto dall’accettazione dell’oggetto come strumento e linguaggio d’arte (che, di fatto, si affermò già con Duchamp e che era tornato alla ribalta grazie al New Dada americano e al Nouveaux Rèalisme francese). Analizzando tutto ciò nell’ottica di Tacchi che, come detto, ha operato abilmente (e forse inconsapevolmente) una sintesi tra tradizione e innovazione, bisogna prendere in considerazione i due poli dell’Informale (da leggersi ormai come corrente che, raggiunto l’apice del suo sviluppo, si preparava ad essere riassorbito in nuove forme artistiche) e la Pop Art e quindi, nello specifico, Alberto Burri e Mimmo Rotella, ”il quale, giocando con i suoi compagni di strada, comincia a strappare manifesti pubblicitari. La nostra realtà era appunto la realtà dell’immagine, non era più la realtà reale, e quindi vissuta con pathos, con quella partecipazione che ancora c’era all’epoca della pittura informale. Il quadro diventa un oggetto. Quando dico che la realtà è quella dell’immagine – definizione inventata da Cesare Vivaldi, se non ricordo male – voglio sottolineare che ci interessava lavorare sull’immagine, che fosse pubblicitaria o cinematografica. Noi non guardavamo la figura nella realtà, ma attraverso la mediazione riproduttiva”. Da Burri, invece, deriva l’idea di superare la superficie piana del quadro, quindi considerare quest’ultimo come un oggetto. Tale componente emerge in particolare con la serie dei ”quadri imbottiti”, tele ricoperte con stoffe variopinte e trapuntate sulle quali venivano inserite rappresentazioni ad inchiostro di personaggi del mondo dello spettacolo, dello sport o del mondo dell’arte (celebre è Primavera allegra del 1965),

C. Tacchi, Primavera allegra, 1965, Collezione Maramotti, Reggio Emilia

esposti per la prima volta nel 1963 presso la Galleria Tartaruga. Questa bidimensionalità è rintracciabile in Burri nei due elementi del materiale e del colore e nella loro adesione alla superficie, costruendo in tal modo un insieme unitario. ”Il continuo ricorso alle coperture e alle cuciture significa anche che ogni esperienza visuale, ogni sorpresa degli occhi, è stata tuttavia ricondotta alla concretezza della superficie perché, come materiale, essa è strettamente imparentata alla tela dello sfondo e presenta analoghe proprietà. E questa parentela dà luogo a un insieme figurativo unitario, strettamente legato alla superficie […]. Ove, invece, accanto al tessuto del sacco esplode un rosso o un nero, esso viene come assorbito per contrasto materiale con il sacco, unito alla superficie e subordinato alla medesima resa in superficie; proprio questa unione con la superficie d’altronde crea la possibilità di inserire liberamente, nel senso dell’espressione, tanto le differenze di tono che la leggera gradazione di rilievo dei montaggi” [in L’arte moderna, n.35, Il dopoguerra: dal naturalismo astratto all’informale]. 

A. Burri,Sacco P5, 1953, Città di Castello, Palazzo Albizzini

È evidente come Tacchi parta da una esperienza simile, ma rileggendola in chiave moderna: all’artigianalità di base (i tessuti trapuntati, la manualità nell’operare) aggiunge, attraverso il processo meccanico della stampa, le icone della cultura di massa, alle quali aggiunge in maniera velatamente critica, anche quelle dell’arte. Se si volesse interpretare questo tipo di composizioni ogni descrizione sarebbe valida, poiché sono opere nate dalla curiosità affidata alla casualità, al desiderio di sperimentare. Il filo che lega i vari passaggi del lavoro di Tacchi è l’idea di ribaltamento della pittura, ovvero un suo superamento; ciò lo porta nel ’68 a passare dal quadro-oggetto all’oggetto. Per il Teatro delle Mostre presso La Tartaruga, Tacchi espone una serie di oggetti disegnati come oggetti di design e che vanno a riempire lo spazio della galleria, creando un ambiente inabitabile, ostico, riallacciandosi al filone della Pop Art che andava realizzando vere e proprie situazioni ambientali ”anomale”, come nel caso di Oldenburg, che crea oggetti ”riconoscibili ma sottratti al loro uso comune” (Bedroom Ensemble, 1963) e Segal. Un filone analogo, ma nato in termini di anti-design, si costituisce anche in Italia, basato su una ricerca che ”si oppone ai tradizionali valori positivi e razionali dell’oggetto industriale”. Questo ”rifiuto” della tradizione pittorica culmina con l’eclatante gesto della cancellazione d’artista (1968): l’artista dipinge un vetro, simboleggiando la negazione del rapporto tra artista e fruitore, una presa di distanza, <<”non voglio far vedere. Non voglio dire. Mi dico: aspettiamo un attimo”. Fino a quando nel 1975 mi rimetto a fare il pittore in modo canonico, restando tuttavia sempre pop nell’esecuzione del dipinto, senza pathos ed emozione, ma attuando un’operazione concettuale e mantenendo margini che servono alla casualità: può capitare che avvenga qualcosa di imprevisto che mi apre nuove strade, creando altre possibilità>>.

C. Tacchi, Cancellazione d’artista, performance, 1975

Eclettico a suo modo, Tacchi ha saputo osservare e criticare con garbo, in maniera erotica, la società dei consumi, stabilendo nessi tra la storia dell’arte e una cultura di massa che si andava plasmando sull’artificialità, la materialità. Egli ha saputo confrontarsi con questi due fronti in maniera poetica, attraverso la suggestione di un’artigianalità ormai al tramonto e un avanzamento della industrializzazione della tecnica che ha nella grafica, nella fotografia e nel design una nuova idea di arte, fredda e meccanica, seducente e consumista, che sorpassa la pittura e avvia le ricerche artistiche verso nuovi orizzonti.

-A. Celletti

FONTE IMMAGINI: WEB

FONTI BIOGRAFICHE:

-M. Chini, Pop Art. Miti e linguaggio della comunicazione di massa. Ed Giunti, Firenze, 20

-a cura di R. Scrimieri: M. Mirolla, G. Zucconi, Arte del Novecento (1945-2001) vol. II, ed. Mondadori Università, Milano, 2004

-B. Di Marino, L. Nicolo, Cesare Tacchi, biologia dell’artificio, in Il Manifesto, 03.03.2018

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