BEATRICE BELLEZZA, ”No More Lies” (2016)

”Vivo la tempesta da dietro il vetro. Fino a gioire per il sereno.

Qualcosa mi dice che questo dramma parla di una leggenda che tengo sepolta nel cuore,

segna un cammino il cui traguardo rimane oscuro,

o mi dà un appuntamento con un mormorio ancora incomprensibile”

Nagib Mahfuz, Miramar

La casualità di un evento può provocare il riaffiorare di conflitti che si credeva essere stati relegati nei meandri di un passato che non si è voluto affrontare o lo si è lasciato scivolare nel corso dell’esistenza, quel complesso mosaico di contraddizioni che si incontrano e si scontrano e compongono, tessera dopo tessera, l’essere col suo carattere, la sua storia, la sua presenza.

La fotografia sembra raccogliere tutte queste contraddizioni e allo stesso tempo le rimanda all’osservatore amplificandole, protraendole nel tempo imminente e continuo in un divenire non privo di ambiguità.

Essa si tramuta in un’arma a doppio taglio, capace di ferire tanto il destinatario quanto il mittente, non risparmiando niente di ciò che l’obiettivo fotografico investe quando è manovrato dalla mano e dalle spinte estico-emozionali del fotografo.

La si può definire ”arma” nell’ottica in cui si coglie di essa l’inganno che la sottende, il suo essere al contempo significato e significante, icona realista di realtà e fittizio.

No More Lies”, progetto del 2016 della giovane fotografa Beatrice Bellezza, punta proprio a rompere gli inganni visivi che un’immagine traduce e li vira verso una scomposizione, o per meglio dire selezione, di singoli particolari e traendo dal significato un significante nuovo, la verità che Beatrice Bellezza sente di dover raccontare, ”la necessità di liberare una parte nascosta della storia”.

Una storia che si snoda nel tempo, con le sue gioie, i suoi dolori, le sue conquiste e le sue sconfitte.

In ”No More Lies” Beatrice Bellezza avverte il bisogno di mettere sulla bilancia del suo percorso tutti questi sentimenti e ponderarli, valutare cosa manca e cosa è arrivato il momento di superare.

La fotografia è lo specchio col quale ci si deve confrontare. Il recupero di vecchie foto di famiglia, che ritraggono momenti all’apparenza felici, smuovono un turbinio di rancori nella fotografa che le osserva non con gli occhi della professionista o di una persona esterna ai fatti, ma come protagonista.

Il dilemma amletico è il punto di rottura e al contempo di contatto tra il presente e un passato nel quale ella non si confronta con se stessa, ma con le figure che l’hanno circondata, che l’hanno accompagnata o, quantomeno, avrebbero dovuto farlo.

Nell’istante in cui questo passato è riapparso dalla casualità di un gesto, ecco allora l’illusione rompersi, gli inganni dei sentimenti e dei gesti immortalati emergere nella loro ”artificialità”.

<<Ho ritrovato una vecchia foto del matrimonio dei miei genitori, in cui compariva mio padre, giovane e sorridente, quasi innocente. Quegli occhi gelidi e quel sorriso forzato mi hanno fatto arrivare la voglia di cancellare quel poco che potevo avere di lui…quella foto era l’unica cosa che mi portava alla mente la sua vera faccia…era l’unica prova della reale esistenza di mio padre.

No More Liese-3

Ho preso una penna e ho iniziato a cancellare il suo volto fra rabbia, disprezzo, lacrime, tristezza e rancore […], ma era un gesto limitato, fine a se stesso. Forse non bastava farlo una volta, forse dovevo esprimere quello che provavo in maniera più aperta, sfogando la mia rabbia più volte e in modo differente.

[…]Ho fatto dissotterrare a mia madre cose che probabilmente preferiva dimenticare. Io no, dovevo avere tutto davanti agli occhi; ma di mio padre era rimasto poco nella nostra famiglia, solo un’altra immagine, una che lo ritraeva sbiadito e rincuorato, sempre sorridente. Quel sorriso che detestavo.

Ho scannerizzato la foto…e ho provato ad esprimermi in maniera differente, ma per quanto il lavoro al computer fosse gratificante, non sarebbe mai stato tanto liberatorio quanto quello di farlo manualmente. Così ho deciso di finirlo nella stessa maniera in cui era iniziato tutto>>.

Inizia in tal modo un lavoro feroce di distruzione dell’immagine, del suo simbolo, dell’idea che essa trasmette.

Avvalendosi del lavoro in post-produzione, Beatrice Bellezza ”aggredisce” le fotografie selezionando e cancellando, evidenziando i particolari che urtano con quella che è stata la sua vita, rimuovendo l’assenza: in sintesi ”inquadrando”, che, come sostenuto da Alain Jaubert1, è il modo più semplice di eliminare, di ritagliare una finestra nel reale; ”una censura del reale che non ci viene mai proposta nella sua totalità. Censura che esprime la soggettività imperialista del fotografo”.

B. Bellezza, No More Lies-1, courtesy l’artista

Emblematica è ”No More Lies-1”, nella quale, ”censurando” tutto il resto, viene focalizzata l’attenzione sulle mani paterne che sorreggono la bambina. Quelle contraddizioni tra realtà fotografica e realtà vissuta emergono nella loro spietatezza, una sorta di universo parallelo nel quale cercare ”la verità che si nascondeva dietro quelle immagini…dietro alla realtà”, sfidando i diversi punti di vista: quelli del fotografo che ritrasse il momento, quello del soggetto ritratto e quello a posteriori dell’osservatrice.

Nelle immagini successive l’attenzione si focalizza sul volto: in esse l’atto distruttivo punta alla cancellazione di quello, ad una lenta e forte liquefazione dei tratti, ad un dissolvimento che annienta quello sguardo gelido e quel disprezzato sorriso. La rabbia, la tristezza, il disprezzo emergono e si concentrano in ognuna di esse, affiorando in ogni frammento in disgregazione dell’immagine, in ogni sfumatura in evanescenza.

Catturando quel volto, Beatrice Bellezza lo rende ”prigioniero” e in tal modo instaura un dialogo con il soggetto raffigurato per il tramite della fotografia, potendolo fissare e coglierne gli atteggiamenti impropri, i particolari che smentiscono ciò che quella fotografia voleva trasmettere e, vedendone il vero aspetto, può ”colpirlo”2.

Questo avviene perché, per citare ancora Jaubert, scontornando si viene a creare un rapporto privilegiato tra l’immagine ”prelevata” e chi su di essa lavora; in precedenza, infatti, quella stessa immagine appariva ”un tiranno inavvicinabile” in virtù del suo disperdersi nel contesto globale della fotografia, ma a Beatrice Bellezza è necessario che essa non sia contaminata ”dalla presenza di elementi banali o di personaggi in secondo piano. Lo scontornamento sarà la velatura capace di rafforzare l’isolamento religioso dell’eroe, l’alone di vuoto che lo rende unico, l’aureola di luce intorno al suo corpo sacro”.

Una sacralità, tuttavia, da demonizzare; un ”nodo di Gordio” che la attanaglia nel presente e che per lasciarla procedere verso il futuro è necessario recidere e per farlo quale migliore spada se non quella ribelle, avulsa da imposizioni e devozioni, quale è l’atto fotografico?

Se si considera inoltre che il lavoro in post-produzione è avvenuto su fotografie scattate da un altro soggetto, se ne potrà concludere che quella che emerge da ”No More Lies” è una nuova storia, che contrasta con quella voluta raccontare dal primo fotografo e che, di fatto, va a scardinare l’idea di una presunta aurea di oggettività dell’immagine fotografica. Di realmente oggettivo vi sono le persone/oggetti, gli ambienti ritratti e tutto ciò che è inglobato dall’occhio della macchina fotografica, ma ciò che è visibile non potrà mai essere assunto come vero oggettivo, ma muterà significato sulla base delle ricezioni dell’osservatore.

Non è neanche scontato che vi sia un fondo di teatralità in termini di realizzazione fotografica; una messa in scena che affiora a maggior ragione in un genere controverso come quello della ritrattistica, specie quella familiare, soggetta a moduli convenzionali di resa delle pose, della gestualità e dell’espressività che risponde, come si vedrà, ad esigenze precise.

Vi è artificio, in virtù del quale alla resa reale dell’immagine non corrisponde sempre la realtà della storia che c’è dietro una fotografia.

Beatrice Bellezza spiega tutto questo in maniera lucida, accostando il pensiero di Roland Barthes, (secondo il quale davanti all’obiettivo si è contemporaneamente ”ciò che io credo di essere, quello che vorrei si creda che io sia, quello che il fotografo crede che io sia e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte”) ad una sua lettura pirandelliana del concetto fotografico, in base alla quale: <<ogni momento comporta una maschera differente e, facendo sfoggio di un’arte che si dice rappresenti la realtà, la verità sta nel fatto che forse è quella che la rappresenta meno, non tanto per ciò che ritrae , quanto per ciò che l’artefice aveva in mente>>.

In ”No More Lies” vi è una menzogna che quelle immagini celano dietro le velature dettate dalle stereotipizzazioni del genere, per capire la quale può essere utile un’osservazione fatta da Pierre Bourdieu3 in riferimento al ritratto familiare, con particolare accento a quello in cui compaiono bambini.

No More Lies-4, courtesy l’artista

Secondo il pensiero di questi, la fotografia familiare assolve a diversi scopi: quello, innanzitutto, di solennizzare ed eternare i grandi momenti di vita familiare; quello poi di fornire al bambino una testimonianza storica di ciò che è stato; infine, lo scopo principale e rilevante, ossia quello di esprimere la verità del ricordo sociale, perché ”il gruppo vede nei monumenti della sua unità passata un fattore di unificazione o perché trae dal passato la conferma della sua unità presente”.

È probabilmente proprio questa idea di unità che le immagini fotografiche tradiscono ad aver innescato nella ragazza quel sentimento di rabbia di figlia tradita, abbandonata. Quell’unità familiare non è esistita nel passato e non corrisponde al presente e, con la consapevolezza di questa realtà, Beatrice Bellezza può scontrarsi con quelle immagini grazie alla maturità acquisita nel tempo, senza la presenza di suo padre. Il bisogno di rimuoverlo da quelle fotografie scaturirebbe così dalla presa d’atto che era una presenza che poco ha avuto a che fare con la sua vita; tuttavia non era sufficiente rimuoverlo. Era necessario un gesto che fosse al contempo atto edipico di eliminazione (in senso metaforico) ma anche confronto indiretto con una persona che esiste in una dimensione propria con un’identità frutto di ricordi e immaginazione. Non è l’uomo in sé ad essere annientato, ma l’immagine che di esso si è fatta la ragazza, rivendicando il suo ruolo di figlia che aveva bisogno di un padre, ma non quello.

L’aspetto affascinante in ”No More Lies” è quella sorta di substrato kafkiano che sembra attraversarlo. Pare, infatti, di confrontarsi con una traduzione visiva di quella celebre ”Lettera al padre”, nella quale lo scrittore riversa contro il genitore una serie di accuse relative al suo modo di comportarsi nei suoi confronti non come padre, ma da vero tiranno, ricusando nei suoi atteggiamenti la causa delle sue insicurezze, del suo essere, di tutte quelle delusioni che ”non erano delusioni qualsiasi, ma colpivano in profondità, giacché provenivano… dalla autorità suprema”.

Beatrice Bellezza sembra essere spinta dagli stessi presupposti allorché ogni immagine ”profanata” diviene un confluire di emozioni, un accusare e accusarsi di colpe che la spingono a riportare in vita non tanto l’immagine del padre, piuttosto quella della bambina che è stata e nell’atto infantile della cancellazione fa emergere quei sentimenti di rabbia e disprezzo che feriscono chi viene colpito e chi colpisce.

È in questo contesto che la fotografia diviene un’arma a doppio taglio, ossia, per utilizzare un’espressione di Franco Ferrarotti, nel suo ”uso e abuso”, nel suo essere testimonianza, ricordo di una realtà fuggita e non esperita, rimedio alla polvere del passato, lotta contro la tirannia delle immagini, intorno alle quali, come ”No More Lies” dimostra, è possibile raccontare storie, verità, partendo dall’accettazione che quella immortalata è una realtà storica, alterata dal gusto scenico della fotografia, distorta dagli occhi di chi la osserva.

Cosa rimane allora a Beatrice Bellezza dopo questo lavoro?

<<Ho fatto tutto il lavoro con un rancore dentro al cuore che mi ha quasi spaventata, ma la realtà dei fatti è che appena terminato di strappare, distruggere, bruciare sue foto, ho capito che era quasi tutto secondario rispetto al lavoro che dovevo fare io, per me stessa […].

E’ questo che ho capito lavorando con le immagini di mio padre: lui non sarebbe mai tornato da me, dovevo essere io ad andargli incontro, in qualunque modo, ma ricordando chi sono e pensando sempre, con fierezza, a come sono cresciuta.

Non è possibile recuperare in quanto non si può dimenticare. Sarebbe stato possibile, forse, solo se mio padre avesse deciso di farsi sentire, di dimostrarmi minimamente che io potessi per lui, ma così non è stato.

Perdonare? Questo è sempre possibile…ma, per quello che mi compete, non potrò mai perdonarlo perché non me lo ha reso possibile, in parte. Ma guardarlo direttamente negli occhi e cercare di capire, ora, con questa coscienza e padronanza che ho conquistato dopo tanti anni di lotta con me stessa, questo sì, è il tassello che completerà il mio gioco>>.

Con ”No More Lies” Beatrice Bellezza ha forse potuto rimettere ordine nella sua esistenza, aggiustando quel tassello frantumato, recuperando il passato e annientandone le bugie, riscrivendo la sua verità, scoprire finalmente quella realtà dietro le immagini di cui disponeva.

Un passato forse chiarito, ma che, per quanto non possa dimenticarlo, è pronta a lasciarselo alle spalle e a proiettarla verso il futuro.

-A. Celletti

B. Bellezza, No More Lies-8, courtesy l’artista

1 A. Jaubert, da: Commissariato degli archivi, ed. orig. Bernard Barrault, 1993, in C. Marra, Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta ad oggi, ed. Mondadori, Milano, 2001, pagg. 34-37

2 Così E. Servadio, da Psicologia e psicopatologia del fotografare, 1977, in C. Marra, Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta ad oggi, ed. Mondadori, Milano, 2001, pag. 53

3 P. Bordieu, da: La fotografia, ed. orig. Minuit, Parigi 1965, in C. Marra, Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta ad oggi, ed. Mondadori, Milano, 2001, pagg. 44-49