BASQUIAT: il re selvaggio della giungla urbana

Basquiat in una foto

Abbozzare un ritratto di Jean-Michel Basquiat (NY 1960-1988) significa innanzitutto fare ordine nella congerie di elementi che si intersecano nell’apparente caoticità delle sue opere, attraversate da temi disparati, ma uniti da un sottile filo che lega motivi diversificati in un unicum razionale. Ma significa, soprattutto, evitare di esaltare il divismo dell’artista, magnificare la sua parabola maledetta, che, a causa di una serie di fattori, ha finito col prevalere e a farne un’icona del suo tempo e dell’immaginario culturale underground. Da un lato, infatti, non vi è dubbio che sia stato lo stesso Basquiat ad alimentare con la sua megalomania il mito della sua persona, ma, perché ciò avesse successo, importante è l’analisi del contesto del mercato dell’arte del periodo, che vede protagonisti ”speculatori”, per i quali ”non si tratta più di collezionare arte, ma di comprare individui” [Mercurio]. Seppure egli abbia inscenato (quasi in linea, si potrebbe azzardare, con il pensiero Situazionista) ”un ruolo provocatorio di opposizione e di revisione dei vecchi valori culturali” e si sia messo in una posizione di ”sfida e rovesciamento delle arti” [Bandini], ha finito coll’essere inghiottito dalla macchina fagocitante di un sistema che, a breve, lo ha portato al collasso. Detto ciò, si potrebbe evitare la vicenda biografica nei casi in cui ciò non venga richiesto dalla necessità di un legame con la produzione artistica; eppure è inevitabile, nella misura in cui l’intera opera dell’artista la si sintetizzi nella proporzione ”la Vita sta all’Arte, come l’Arte sta alla Vita”. Un binomio fondamentale, poiché su di esso si regge il nodo fondamentale e interpretativo del corpus di opere dell’artista. Basquiat ha saputo fonderli in maniera tale da risultare impossibile scinderli, dando così vita ad una sorta di enciclopedia visiva, un’antologia di ”leggende” che traggono motivo da dati biografici, interessi personali, culturali, sociali.

Abbozzare un ritratto di Jean-Michel Basquiat significa, allora, intraprendere due operazioni di fondo: scardinare la patina oggettiva dell’opera, ricercando la soggettività che scaturisce da quella ”calamita di immagini che si rincorrono e si sovrappongono in una tragica e al contempo ironica rappresentazione del mondo. Non ci sono gli oggetti e gli scarti…ma le loro icone, i frammenti di immagine di una realtà che si esibisce in superficie e si fissa nello sguardo” [Eccher]. Dall’altro, vi è il tentativo ultimo di ribaltare la subdola sentenza dell’osservatore medio, il quale, non avendo abituato l’intelletto a superare l’estetica visiva, si limiterà a giudicare ”infantile” tanto l’artista quanto la sua arte. Che un fondo di verità ci sia è da ammettere, ma l’infantilità a cui bisogna volgere l’attenzione ha una sua natura colta, ossia è da esaltare nelle sue potenzialità, non relegandola nella sfera dell’ingenuità.

È opportuno seguire il percorso che da SAMO lo cala nelle vesti di primitivo e da qui a eleggersi a ”re”. Per far questo è necessario analizzare due precisi periodi, che corrispondono alla genesi della sua produzione.

J. Van Der Zee, Basquiat’sportrait

Da SAMO© alla rottura con Annina Nosei.

Strane immagini accompagnate da oscure parole imbrattano i muri di Soho e Tribeca. Composizioni non anonime, ma autografe; l’artista che le ha realizzate si firma con lo pseudonimo ”SAMO”, a cui aggiunge il simbolo del copyright a volerne rivendicare l’esclusività e la non riproducibilità. Sorgono in punti strategici, ossia non distanti dai luoghi-culto dell’arte. Una critica sottile, ma feroce nell’impatto visivo. È il 1978 e SAMO (SAMe Old shit) è la sigla con cui si firmano Basquiat e Al Diaz.

Basquiat ha appena 18 anni e come ogni ragazzo della sua età ha molto da dire, molto da sognare. Ambizioso, ribelle, ma afflitto da un costante senso di solitudine, questo giovane, proveniente da una famiglia borghese dalla quale prende le distanze, vuoi per inclinazione, vuoi perché, come molti giovani, in rotta di collisione con la severa e distaccata autorità paterna, manifesta sin da bambino un’innata passione per l’arte. La osserva, la pratica, la studia da autodidatta. Non ha mai compiuto studi accademici, ma fa della strada la sua scuola, dei suoi interessi la fonte da cui trarre argomenti.

Capire Basquiat significa, però, inquadrarlo nel suo tempo. Se il personaggio ha funzionato, se le sue opere sono divenute culto, lo si deve alla benedizione di essere nato in quel periodo, in quel luogo (New York). Anteriormente non avrebbe funzionato; se la morte non lo avesse colto al termine di quel decennio, molto probabilmente, nell’incapacità di declinare i motivi della sua poetica, rileggendola nell’ottica dei tempi attuali, non avrebbe avuto più molto da dire. La morte lo ha ”salvato”, lo ha idolatrato. Basquiat ha retto perché quel tempo gli ha donato le condizioni per emergere.

Per capire il successo di Basquiat è necessario analizzare questo suo tempo: non è sufficiente limitarsi alle favorevoli condizioni del mercato artistico, animato da acquirenti affascinati dalla sregolatezza e dallo stile outsider degli artisti, in un clima kitsch e pop estremi. È piuttosto gettando lo sguardo al contesto sociale e politico dell’America degli anni ’80 che possiamo estrapolare aspetti fondamentali per centrarne il pensiero. È nelle conseguenze sociali e politiche del programma reaganiano che emergono quelle spinte ribelli ed esclusiviste che ne forgeranno il carattere e il lavoro. Ossia, nella cancellazione degli ultimi stralci della protesta black degli anni Settanta, nel riemergere delle diseguaglianze causate da una politica marginante nei confronti dei ceti medio-bassi, specie nei confronti degli immigrati. Basquiat ”sfrutta” le sue origini africane (honduregne per l’esattezza) per farsi messia: un Cristo nero calato nella realtà urbana, che vuole non tanto trasmettere un messaggio, quanto farsi vendicatore della sua cultura e artefice di un linguaggio che, tra codici contemporanei e atavici, possa risultare attraente e comprensibile per l’osservatore. Sembra che egli non imbocchi mai la strada dell’aperta protesta, bensì la sussurri, celandola con l’ironia e quel senso di sprezzante e sfacciato divismo. Calato in questo ruolo, Basquiat crea il suo personaggio: il selvaggio, abbandonato, errante, costantemente oppresso da una spinta autodistruttiva e megalomane. Il suo misticismo si nutre di eroina e balla sulle note jazz di Charlie Parker e Miles Davis; fa di Burroughs e Kerouac le sue guide. Gli aspetti più esaltanti delle sue culture non li assorbe, ma li vive, li trasforma in arte!

Che qualcosa abbia da dire Basquiat è stato evidente sin da subito, da quando era ancora SAMO. Il ”SoHo News”, a seguito dell’apparizione delle prime fotografie delle sue opere, definirà: << SAMO come nuova forma d’arte. SAMO come la fine della religione che ti lava il cervello, della politica inconcludente e della falsa filosofia. SAMO salva gli idioti. SAMO come alternativa a Dio. SAMO come la fine del fare arte […]. SAMO per la cosidetta avanguardia. SAMO come alternativa al fare arte con la setta ”radical chic” finanziata dai dollari di papà. SAMO come la fine dei confini dell’arte>>. Una serie di definizioni che sembrano aprire ad una nuova Era artistica. Un punto di non ritorno. La conferma alcuni anni dopo: il biennio 1981-82 sarà fondamentale sia per l’affermazione pubblica (che fu esorbitante), sia per la definizione delle leggende iconografiche di Basquiat. Un’iconografia che assomma codici espressivi moderni ad archetipi primitivi. René Ricard, una delle più convinte artefici dell’affermazione dell’artista, scrive che in lui era rintracciabile l’eleganza di Cy Twombly e la brutalità di Jean Dubuffet. Coi due maestri del moderno primitivismo Basquiat condivide l’urgenza di rifondare un linguaggio che alla materia pastosa e alla povertà dei mezzi, unisce l’aggressività del segno espressionista e il cromatismo dell’Action Painting e il ricorso ad oggetti dismessi e riciclati dalla strada sui quali dipinge proprio del metodo neo-dadaista. Come nota Debailleux, ”a differenza della pittura ”classica”, Basquiat non cerca di ri-elaborare ri-comporre lo spazio […]. I suoi dipinti hanno sempre mantenuto quell’impressione di palizzate fatte a pezzi e appese alle cime […]. L’assenza di prospettiva esiste con il suo corollario: la scomparsa del tempo. Per Basquiat il tempo è attualmente senza passato, è immediatezza”.

Basquiat, Versus Medici, 1982

Assenza di rielaborazioni, di spazi e di tempo. Sebbene Baquiat abbia condiviso con l’arte primitiva tratti, stile, riferimenti, egli ha una caratteristica in più: è un ”primitivo”. In tale veste, egli ha la necessità di comunicare attraverso un linguaggio e, come ogni lingua che debba essere compresa, ha bisogno che essa si fondi su caratteri universali. Da qui i tratti infantili forgiano un segno che scava la materia di tela e colore. Una frenesia sciamanica, dettata dall’estasi dell’attimo contingente, dal misticismo di una rivelazione aperta e criptica allo stesso tempo. Basquiat si lascia rapire, si sente un selvaggio dalle doti sacre che deve esprimere il suo linguaggio facendo ricorso alla lingua altra, quella dei bianchi, quella dell’America dei consumi e delle libertà negate.

Spazio e tempo sospesi. Nelle tele del biennio è annullata qualsiasi prospettiva a favore della frontalità. Un senso di horror vacui tempesta le tele: fondali pieni, segni marcati e molteplici. Fallen Angel (1981), Versus Medici (1982), Profit I (1982), sono esempi efficaci di quanto sinora esposto, ma rivelano molto altro, ossia la capacità di saper fondere motivi multiculturali, saper rileggere la cultura americana attraverso una scelta stilistica che affonda nella convinzione del proprio essere africano. Basquiat non sa nulla della cultura africana (anche se nel 1986 andrà in Arica, ma sente che gli appartiene, che essa sopravvive come un ancestrale ricordo. Non ha bisogno di apprenderla: scorre nel suo sangue. Le sue figure sono iconiche, rimembranze totemiche di antiche tribù. Queste si scontrano con la brutale e selvaggia metropoli che li definisce e li ritma nello scorrere dei frammenti di immagini che appaiono sulla tela, simili a partiture di un motivo jazz, con accelerazioni e pause, separati in campi come nella struttura di un fumetto. Di quest’ultimo riprende un’altra caratteristica: l’essenzialità e la marcatura degli elementi. Figure scheletriche e barbariche, sulla cui iconografia importanti osservazioni ha fatto Enrico Pedrini. Egli parla di ”effigi solenni”, la cui ieraticità deriva dall’espressività trasmessa dagli occhi aggettanti, che catturano l’attenzione dell’osservatore, marcandone l’aggressività, convertendo così ‘in alta qualità la fremente brutalità e vitalità degli abitanti di colore dei quartieri di New York per imporli con forza quali personaggi di un mondo di sofferenza e di disperazione”. Queste icone finiscono in tal modo per ”annullare l’arroganza e la sicurezza della cultura bianca, obbligandola a riflettere sulla condizione di privazione dell’emarginato”. Figure bambinesche, accompagnate da alcune scritte. Messaggi criptici che supportano la raffigurazione contrapponendo un linguaggio anticomunicativo (le stesse parole, cancellate o semicancellate hanno la funzione di ”attirare l’attenzione di chi guarda e invitarlo a ricostruirne il senso [Mercurio]), escludente verso chi non apparteneva alla sua comunità, della quale racconta leggende, fatti di cronaca, la marginalizzazione che passa attraverso la miticizzazione dei grandi rappresentanti della cultura afro (un esempio sono Jimmy the Best (1981), VNDVRZ (1983), The Pilgrimage (1986), che sembra raccontare la genesi della cultura americana).

Basquiat, Jimmy the best

Partecipa a diverse mostre nel biennio, sia collettive che personali (tra le quali Beyond Worlds, la mostra londinese New Spirit in Painting, e Pubblic Address, tutte nell’81). La sua euforia è alle stelle, la creatività lo porta a dipingere molto. L’incontro con Annina Nosei e la permanenza nella sua galleria lo eccitano. Un ambiente alternativo, caotico, dove droga e musica la fanno da padrone, era quanto più egli potesse desiderare.

Basquiat, Untitled

L’Autoritratto del 1982 è emblematico dello spirito dell’artista in quella fase della sua vita. Una Gorgone, lo sguardo magnetico, il sorriso beffardo. La vigoria del corpo e delle mani, la postura iconica sono il riflesso del suo essere selvaggio e attraente. Il capo sacro di una tribù profana. Un nomade errante tra gli incunaboli delle sue allucinazioni gloriose. Un’immagine ben diversa da quella che trasparirà nella serie di autoritratti del 1986…

Basuiat, Selfportrait, 1982

Il sodalizio con la Nosei, tuttavia, si interrompe bruscamente e per Basquiat si apre una nuova fase, quella che dall’apogeo lo catapulterà in breve verso il collasso.

-Il selvaggio diventa re: dalla gloria al collasso.

La rottura con la Nosei coincide con il raggiungimento del successo. Si apre la seconda fase della produzione di Basquiat il quale, sviluppando i temi già trattati in precedenza, dimostra nello stile maggiore dominio, pacatezza, senso dell’ordine. All’horror vacui scaturito da ”una materialità densa e ruvida…solcata e lacerata da un tratto iconografico primordiale e quasi liturgico” si sostituisce un cromatismo più colto e controllato, seppure ”la necessità narrativa è la stessa, il ruolo grafico dell’annotazione contribuisce a definire un codice espressivo che può essere urlato o sussurrato, ma che comunque svela un’intimità profonda” [Eccher]. Tele più pulite, di ampio respiro, che tradiscono, tuttavia, una stanchezza nel tratto, nei motivi, privati della forza brutale e primitiva dei dipinti precedenti. Il selvaggio, divenuto re, è consapevole della rapidità dei capovolgimenti della sorte. Solo e ormai nudo, deve difendere la posizione che si è guadagnato. In bilico tra una ”tradizione” pittorica consolidata e la necessità di rinnovarsi, Basquiat sembra entrare in un tunnel. Logorato dalla paura del fallimento, dalle delusioni delle critiche, anche a seguito del legame con Andy Wharol, egli si riduce a spettro di se stesso. Due autoritratti dell’86 raffigurano il riflesso del suo decadimento. Il re è debolmente agguerrito e pronto ancora a difendersi, ma il suo volto è stanco, il suo corpo scheletrico. La forzuta figura di alcuni anni prima sembra destinata a sparire. Trascorsi gli ultimi anni chiuso nel suo appartamento, Basquiat si spegne nel 1988 a soli 28 anni a causa di un’overdose. L’indomabile nero della metropoli, assapora la gloria del successo e il fremere della trasgressione. Quel bambino che se ne stava seduto a fissare ammaliato sua madre disegnare sui tovagliolini di carta; quel bambino che, in convalescenza a seguito di un incidente, sfogliava le pagine dell’Anatomia di Gray; il ragazzo che, appassionato di musica, tenta di percorrere questa strada col suo gruppo, i Gray; lo sciamano che si abbandonava all’estasi nelle notti, vivendo d’arte, a contatto diretto con le sue opere, vivendole, ha segnato un’epoca. L’artista maledetto, forse, è sopravvissuto rispetto alla sua arte, causa l’epoca e le tendenze, che hanno condannato la seconda e mistificato il personaggio. Solo riscoprendoli e reintegrandoli si potrà rendere gloria e dovuti onori al selvaggio re della tribù della giungla urbana.

Basquiat, Self-portrait, 1986

-A. Celletti

FONTI BIOGRAFICHE:

-W. Becker, Messaggi occulti di artisti tormentati. Una distaccata prospettiva europea della vita e delle opere di Basquiat, in Jean-Michel Basquiat, catalogo mostra gennaio-marzo 2002, Roma, Chiostro del Bramante, ed. Electa

-E. Debrailleux, Basquiat, in Jean-Michel Basquiat, catalogo mostra gennaio-marzo 2002, Roma, Chiostro del Bramante, ed. Electa

-G. Mercurio, Basquiat, ed. Giunti Editore S.p.a, Milano, 2006

-E. Pedrini, La malia di Jean-Michel Basquiat,in Jean-Michel Basquiat, catalogo mostra gennaio-marzo 2002, Roma, Chiostro del Bramante, ed. Electa

FONTE IMMAGINI: WEB